GEORG FRIEDRICH WILHELM HEGEL, ESTETICA - SECONDO L'EDIZIONE DI H. G. HOTHO CON LE VARIANTI DELLE LEZIONI DEL 1820/21, 1823, 1826 - Testo tedesco a fronte - Saggio, traduzione, note e apparati di Francesco Valagussa - Bompiani, Milano 2012, pp. 3000 - € 50.
Rizzoli, Milano 2010
Un’occasione ghiotta è stata per me la lettura della
recensione di A. Gnoli (la Repubblica, martedì 13 febbraio
c. a.) riguardante l’Estetica di Hegel recentemente pubblicata.
Così ho ripreso a coltivare il mio interesse per una questione
che appena sfiorai quando fu pubblicata in Italia l’opera
di A. C. Danto, OLTRE IL BRILLO BOX – Il mondo dell’arte
dopo la fine della storia, Ch. Marinotti Edizioni 2010, libro da
me recensito lo scorso anno sulla Rivista ARSETFUROR.
La vexata quaestio sulla morte dell’arte allora non fu da
me approfondita, per dare risalto esclusivo all’opera in sé
dello studioso americano, storico dell’arte di fama mondiale,
la cui diffusione mi sembrava meritasse di più tra i cultori,
i teorici e gli artisti. Oggi, rileggendo l’Introduzione del
libro dal significativo titolo "Il Brillo Box" con il
sottotitolo inequivocabilmente chiarificatore, mi accorgo che A.
C. Danto, a pag. 8, prende posizione sull’argomento e dichiara:
“L’idea che l’arte sia un fenomeno cbe tende
a raggiungere un specie di fine storica […] venne proposta
nelle lezioni sulla filosofia dell’arte che Hegel tenne
a Berlino nel 1828. […]. Anche Vasari pensava che l’arte
avesse una fine nel senso che i problemi relativi alla sua essenza
e alla sua definizione tendessero a risolversi e che dopo tale
risoluzione restasse solo da applicare le soluzioni ai diversi
compiti che gli artisti erano chiamati a svolgere. […].
Un po’ meno chiara è ciò che Hegel aveva in
mente; d’altra parte le sue osservazioni sull’argomento
sono notoriamente criptiche”.
Continuando
la lettura di questa introduzione, mi sono accorto che A. C. Danto
appare del tutto disorientato, di fronte a quelle che lui definisce
“osservazioni sull’argomento […] criptiche”,
che lo autorizzano quindi a sproloquiare, senza far capire bene
se lui o noi tutti ci troviamo ormai oltre il Brillo Box; ma di
sicuro sembra aver preso le distanze dal metafisico maestro berlinese.
Anche secondo A. Gnoli la morte dell’arte resta un concetto
ambiguo che Hegel espresse e non espresse, ponendosi incautamente
sulla scia del pigri intellettuali che non intendono varcare la
soglia della filosofia e seguire il Maestro nella sua speculazione
alla ricerca dell’Assoluto, di quell’assoluto o divino,
che non è poi tanto lontano dall’umano. Se si prendono
in considerazione le riflessioni di TZVETAN TODOROV che in modo
assai convincente ci induce a fare leggendo la quarta parte VIVERE
CON L’ASSOLUTO del suo bel libro intitolato LA BELLEZZA SALVERA’
IL MONDO, Garzanti 2010, è probabile e auspicabile che finalmente
tutti riusciamo a capire la tesi hegeliana sulla morte dell’arte.
Nel Saggio introduttivo all’Estetica di Hegel Francesco Valagussa
a pp. 85-86 sembra decisamente volerci chiarire le idee in proposito
asserendo: “La tesi sulla cosiddetta morte dell’arte
ricorre di frequente nell’opera, né è possibile
ridurla a una mera espressione avulsa dal pensiero hegeliano, diffusasi
nella Wirkungsgeschichte soltanto a motivo della sua icasticità;
costituisce al contrario uno dei pilastri della concezione estetica
hegeliana poiché non rappresenta soltanto la cifra dell’inclusione
dell’arte nel sistema hegeliano, bensì indica il modo
in cui l’arte viene accolta in esso”. Il curatore riporta
anche (pp.84-85) alcuni passi dell’Estetica in cui il concetto
ritorna, per esempio, nelle pagg. 171, 389, 1135, 1337, 1463, 2675.
E con riferimento a tutti questi luoghi e altri dell’Estetica
hegeliana penso abbiano esercitato la loro più matura riflessione
gli studiosi Nicola Abbagnano (1), Armando Plebe (2), F. Adorno
- T. Gregory – V. Verra (3), U. Nicola (4), che hanno anticipato
una giusta interpretazione della tesi hegeliana, coincidente sostanzialmente
con quella di F. Valagussa. Essi infatti, come si evince dalle citazioni
delle loro analisi riportate in calce al presente lavoro, non si
sono limitati a prenderne atto sic et simpliciter, ma si sono esposti
fornendo una spiegazione in perfetta armonia con quella terza forma
dello spirito assoluto che è la filosofia, che Hegel definisce
teologia razionale (pag. 383).
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A questo punto, credo sia opportuno leggere insieme il passo dell’Estetica
più significativo per una migliore comprensione diretta della
tesi in questione e individuare nelle parole dello stesso Autore
la chiave di lettura più corretta. A pagg. 389-391 Hegel
dice:
L’arte ai suoi esordi lascia ancora sussistere qualcosa
di misterioso, un presentimento colmo di segreti, un tormento, a
motivo del fatto che le sue produzioni non hanno ancora tratto compiutamente
per l’intuizione immaginativa tutto il loro contenuto. Se
però il contenuto compiuto viene posto totalmente in rilievo
in forme artistiche, lo spirito lungimirante ritorna da questa oggettività,
nel suo interno e l’allontana da sé. Tale epoca è
la nostra. Si può certamente sperare che l’arte si
elevi e si perfezioni sempre di più, ma la sua forma ha cessato
di essere il bisogno supremo dello spirito. Benché possiamo
trovare eccellenti le immagini degli dei greci, e vedere degnamente
compiutamente raffigurati Dio Padre, Cristo, e Maria, nondimeno
questo non ci aiuta per niente, noi non ci inginocchiamo più.
Se a questo passo aggiungiamo l'integrazione riportata in calce
da Valagussa, come variante tratta dal nuovo materiale di appunti
e trascrizioni degli studenti di Hegel, si comprenderà meglio
che cosa voglia intendere il Maestro dichiarando che la forma
dell'arte "ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito",
che non equivale affatto, né letteralmente né concettualmente,
all'espressione morte o fine dell'arte:
XLII (B, p. 6) E questa è l'idea più profonda, quella cristiana
nel suo sommo grado, non può essere rappresentata sensibilmente
dall'arte; poiché essa non è connessa e non è sufficientemente
prossima al sensibile. Il nostro mondo, la nostra religione e
la nostra formazione razionale sono di un livello ulteriore all'arte
in quanto grado supremo per esprimere l'assoluto. L'opera non
può dunque soddisfare il nostro bisogno ultimo e assoluto, noi
non adoriamo più un'opera d'arte, e la nostra relazione con essa
è di carattere più meditativo.
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Ma, si sa, i grandi dividono sempre,
adepti e non adepti, perché pongono delle questioni che paradossalmente
non si risolveranno mai, quando invece dovrebbero unire e pacificare
gli animi. Destra e Sinistra hegeliana non hanno perso tempo e,
dopo la morte del Maestro, come se avessero avuto il segnale di
partenza, i discepoli si sono subito schierati dall'una o dall'altra
parte, e più che contribuire a chiarire la tesi della cosiddetta
fine dell'arte, l'hanno complicata, confusa e travisata, come
se Hegel avesse dichiarato la morte dell'arte e quindi la cessazione
della sua presenza nel mondo o le avesse addirittura dato il bando
definitivo quale inutile e superato modo di intendere la vita
nella sua complessità, dove ciò che è razionale, è reale, e ciò
che è reale, è razionale. E proprio questo invito hegeliano a
cercare e trovare dialetticamente la razionalità del reale e la
realtà del razionale ci autorizza a pensare che per Hegel l'arte
non potrà mai morire nel senso letterale dell'espressione, ma
che anzi, proprio morendo paradossalmente vivrà, che significa
semplicemente sul piano teoretico riconoscimento e consapevolezza
del suo limite, oltre il quale c'è la filosofia a occuparsi dell'assoluto,
non competendo ad essa altro se non quello di aver raggiunto il
grado più alto dell'espressione, ossia di rappresentazione sensibile
dello spirito.
Ora, a mio giudizio, la cosiddetta fine dell'arte
non significa morte, bensì punto d'arrivo, il non plus ultra,
di massima estrinsecazione in un'epoca evoluta come la nostra,
e quindi, come assicura Hegel, l'arte può ben sperare di continuare
a vivere nei modi e nelle forme più alte già perseguite, senza
tuttavia temere di commettere un abuso della bellezza, come del
resto pensa lo stesso Danto, perché questa precisamente è la sostanziale
sua dimensione e ragion d'essere. Altrimenti che arte sarebbe,
se non perseguisse il bello, che è il vero e che intuisce l'assoluto?
Ma questo non vuol dire raggiungere, ossia realizzare quello spirito
assoluto, di cui soltanto la filosofia, quale teologia razionale,
può fornire una soluzione, una spiegazione, una certezza dell'immanenza
divina.
Tornando ora più specificatamente alla recensione della
monumentale opera di F. Valagussa, devo dire che lo studioso ha
fornito agli addetti ai lavori uno strumento estremamente prezioso,
sia per le sue capacità di analisi e di sintesi, oltre che di
chiarezza espositiva, espresse nel Saggio introduttivo, sia per
la fedeltà della traduzione del testo a fronte con l'aggiunta
delle varianti e trascrizioni degli studenti, che meglio chiariscono
il pensiero del Maestro.
Tuttavia mi sembra altrettanto doveroso
sottolineare la presenza di refusi tipografici, ricorrenti qua
e là nell'opera, persino fra le note, che però non sono addebitabili
al curatore, bensì al correttore di bozze, non escluso l'editing,
che dovrebbe curare meglio la qualità delle pubblicazioni, anche
tipograficamente, piuttosto che la quantità, perché la bulimia
oggi è persino una malattia dell'editoria, e il lettore si sente
giustamente defraudato come l'autore leso nella sua onorabilità.
NOTE
(1) NICOLA ABBAGNANO, Storia della filosofia,
vol. III, Utet, Torino, pag. 126: "Sotto tutti questi aspetti -
dice Hegel (1b, I, 1°, pp. 15-16) - l'arte è e rimane per noi, quanto
al suo supremo destino, una cosa del passato. Essa ha perduto per
noi la sua propria verità e vitalità, ed è relegata nella nostra
rappresentazione, sicché non afferma più nella realtà la sua necessità
e non occupa più il posto più alto". Il "futuro dell'arte" è nella
religione (Enc., § 563), ciò non vuol dire d'altronde (come qualcuno
ha interpretato) che l'arte sia destinata a sparire dal mondo spirituale
degli uomini, ciò che è sparito e non può più tornare è, secondo
Hegel, il valore supremo dell'arte, quella considerazione che faceva
di essa la più alta e compiuta manifestazione dell'Assoluto. Non
può più tornare, in altri termini, la forma classica dell'arte,
ma l'arte è e rimane una categoria dello Spirito Assoluto; e tutte
le categorie sono necessarie e immutabili perché costituiscono nella
loro totalità l'autocoscienza vivente di Dio. (2)
ARMANDO PLEBE, GEORG FRIEDRICH WILHELM HEGEL, in Grande Enciclopedia
Filosofica, vol. XVIII, Il Pensiero Moderno, Marzorati, Milano,
pag. 459: Uno dei concetti dominanti dell'Estetica hegeliana è che,
all'epoca di Hegel l'arte non abbia più una finzione essenziale
da svolgere, bensì che il suo ruolo sia ormai stato assunto e superato
dalla filosofia. Quest'idea, apparentemente paradossale e tipica
dell'Estetica di Hegel, fu poi indicata dagli hegeliani come l'idea
della morte dell'arte: essa non vuol certo significare che nell'età
di Hegel, e in quelle future, gli artisti abbiano cessato di produrre
opere pregevoli, né tanto meno che sia cosa biasimevole che essi
continuino a produrle, bensì intende sostenere che l'arte ha ormai
cessato di essere una forma essenziale per lo sviluppo storico dello
Spirito. L'arte, cioè, è stata in altri tempi una forma così importante
dello spirito umano, da costituire una pre-religione e una pre-filosofia:
questa è la convinzione di Hegel. Egli quindi ritiene che, dopo
una religione tanto radicata nell'umanità, quale il cristianesimo,
si è formata compiutamente, e dopo che una filosofia tanto adeguata
alla razionalità del reale qual è l'Idealismo e giunta alla propria
sistematizzazione, non abbia più senso la funzione dell'arte in
quanto anticipazione della religione e della filosofia. L'arte quindi
può, sì, sopravvivere, però con l'implicita rassegnazione che la
leadership dello spirito umano è ormai stata assunta prima dalla
religione, poi dalla filosofia.
(3) F. ADORNO - T. GREGORY - V. VERRA, Storia della filosofia con testi e letture critiche - vol. III, Laterza , Bari, 1973, pag. 72: Col tramonto della polis e della religione greca e con l'avvento del cristianesimo, nuova religione destinata a soppiantare tutte le altre, lo spirito si riconosce come interiorità; l'arte diventa quindi costitutivamente romantica, in quanto scaturisce da un senso sempre più acuto del divorzio tra sensibile e spirituale e dell'impossibilità di esprimere adeguatamente lo spirituale nel sensibile. Si ha la cosiddetta fine dell'arte come tramonto delle sue possibilità di rappresentare l'autocoscienza dello spirito che vive ormai nella religione e nella filosofia.
(4) UBALDO NICOLA, Atlante illustrato di filosofia, Demetra, pag. 400: La sintesi, l'arte romantica moderna, distrugge di nuovo l'equilibrio classico. In questa fase quindi della storia lo Spirito ha acquisito contenuti che superano l'espressività della materia; qualsiasi forma è ormai insufficiente a concretizzare un'interiorità spirituale matura. Da qui l'annuncio hegeliano della morte dell'arte, destinata ad essere assorbita dalla religione e quindi dalla filosofia. In realtà Hegel non profetizza la fine di ogni produzione artistica, ma la crescente inadeguatezza di ogni soluzione artistica nel tradurre in oggetti la profonda spiritualità moderna.
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Onofrio Annese, già Dirigente scolastico in alcuni licei di Roma e poeta satirico.
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