VITTORIO SGARBI, NEL NOME DEL FIGLIO -Natività, fughe,
passioni nell’arte
BOMPIANI - Milano, 2012 - € 24,00
Non è un catalogo, non è una storia dell'arte, non è un'opera letteraria,
è la storia che ci riguarda.

Premetto che Vittorio Sgarbi, per l’indiscutibile competenza
nel suo campo, notoriamente eccellente, non ha bisogno del giudizio
di merito di nessuno, allo scopo di promuovere il libro di cui mi
accingo ad occuparmi: il nome stesso richiama l’attenzione
di tutti i cultori dell’Arte. Egli è celebre anche
per alcune sue performance televisive (Sgarbi quotidiani, per esempio),
su cui molti telespettatori potrebbero dissentire, mostrando di
non gradire le sue battute offensive (capra! capra! capra! per esempio);
ma non gli si può negare una certa accattivante teatralità,
soprattutto quando affronta questioni inerenti al mondo dell’arte.
È un mostro di cultura e di analisi critica, per cui andrebbe
ringraziato persino quando toni e modi non sembrano del tutto garbati
e rispettosi dell’incolpevole ignoranza e dell’incompetenza
del grande pubblico: lo fa, a mio avviso, nell’intento esclusivo
di diffondere la conoscenza delle opere d’arte; andrebbe ringraziato
perché, a modo suo, cerca di valorizzare al massimo il nostro
patrimonio artistico e culturale, di cui tutti dovremmo essere gelosi
custodi, mentre purtroppo, a partire dalla classe dirigente e politica
ignorante, insipiente e incurante, noi lo distruggiamo. L’istituzione
scolastica stessa tiene l’Arte, come la Musica, in non cale,
limitandone l’insegnamento a pochissime ore, per esempio,
nel liceo classico, mentre nel nostro ordinamento, a tutti i livelli,
la Storia dell’arte dovrebbe essere materia fondamentale,
sia per garantirne la conoscenza sia per la tutela del cospicuo
patrimonio artistico, che i popoli ci invidiano e vengono in massa
da turisti per ammirarlo e da studiosi per copiarlo. Per valorizzare
il nostro patrimonio artistico, quindi, bisogna conoscerlo e farne
oggetto del nostro pane quotidiano, fornitoci nelle migliori confezioni
dagli esperti e critici italiani e stranieri, che spesso si rivelano
i più fedeli custodi dell’Arte, come il prof. V. Sgarbi,
il quale ancora una volta con quest’ultima opera ci regala
una lezione di grande sensibilità e umanità. Titolo
e sottotitolo (Nel nome del Figlio. Natività, fughe, passioni
nell’arte) enunciano chiaramente e riassumono l’ampiezza
di tutta l’opera, che si divide in dieci PARTI, precedute
da una Introduzione e da un Prologo particolarmente interessanti.
Dall’Introduzione, infatti, recante il titolo L’Arte,
la guerra, la parola, apprendiamo una lezione che ci viene da lontano,
dall’America implicata nella seconda guerra mondiale. Non
posso trattenermi dall’affermare che qui l’A. dà
inizio a una enfatizzazione o, meglio, sublimazione della Redenzione
per merito dell’arte e della parola; Redenzione come Rivoluzione
promossa dal Figlio, per salvare il mondo creato dal Padre (cfr.
p. 7). Se vogliamo seguire proficuamente l’A. nel suo percorso
analitico lungo il profilo dell’arte sacra, se non siamo credenti,
dobbiamo convertirci e nutrire fede sincera, al fine di capire il
trasporto con cui egli legge di Piero della Francesca La Resurrezione,
affresco conservato nella Pinacoteca Comunale di Borgo Sansepolcro,
sfuggito alla distruzione della guerra, grazie alla sensibilità
e intelligenza del capitano Antony Clarke, suggestionato a sua volta
nel vago ricordo delle parole di Aldous Huxley, grande ammiratore
del pittore, la cui opera aveva definito “la più bella
pittura del mondo”(p. 8). Clarke attribuì, oltre che
alle parole di Huxley, a un miracolo la salvezza materiale di quel
monumento per non averlo bombardato; ma Sgarbi, estendendo oltre,
nella sfera spirituale, la sua analisi, si domanda: <Ma è
la forza della parola o è la forza della pittura?>, e
sulla scia di Hegel asserisce senza esitazione: <La forza della
presenza divina nella forma dell’arte> (p. 11), ma nello
stesso tempo di fronte alla quale ci induce a inginocchiarci, contrariamente
a quanto lo stesso autore dell’Estetica o Filosofia dell’arte
osserva nel considerare l’arte come prima forma dell’intuizione
sensibile, persino nelle sue espressioni più alte. Nel Prologo,
dal titolo Il genio degli anonimi, Sgarbi mostra una sorprendente
tenerezza, nell’affrontare una puntuale lettura dell’opera
di un Anonimo, cosiddetto Maestro di Sant’Agata, Tavola di
Sant’Agata, Cremona. La sua tenerezza traspare da un ulteriore
titolo esplicativo: Sant’Agata e suo figlio. Un fanciullo
all’inizio della pittura moderna. Fantastica, stupefacente
e suggestiva la dettagliata analisi: colpisce massimamente il codice
di lettura, secondo cui l’eminente critico ci guida nell’interpretazione
di un’opera d’arte, avvalendosi di una terminologia
morfosintattica, propria della lingua e del linguaggio, ossia <della
parola parlata, della lingua detta> (p. 27). Con la PARTE I,
dal titolo Figlio di Maria, ha inizio quello che sembra un tuffo
nel Mistero della Redenzione. Uscendo dal Prologo e avendo appreso
la storia del martirio di Sant’Agata, non si può nascondere
un forte impulso che fa maturare in noi il convincimento di doverci
attrezzare con la conoscenza non solo della storia sacra, ma anche
dell’agiografia (vita dei santi), per intendere l’arte
magistralmente raccontata dall’illustre storico e critico,
come in questo libro; per non parlare della letteratura. Non si
esclude infatti che Jacopone da Todi con il suo Pianto della Madonna
abbia suggerito all’A. di mettere insieme una serie di filiazioni
partorite dalla mente di artisti tra loro affini per il soggetto
trattato, come Giotto, di cui viene messo in risalto un certo <realismo
di azione> (p. 33) e inoltre <il Giotto maturo, il Giotto
sintetico, che parla un linguaggio di comunicazione immediata, eloquente
nel rapporto tra lo spazio e i personaggi, un linguaggio che apre
ufficialmente alla pittura moderna> (p. 39). Seguono: Maestro
di Monreale, Pietro Cavallini, Duccio di Buoninsegna, Masaccio,
Piero di Giovanni Ambrosi e Filippo Lippi, Beato Angelico, Sassetta.
Ciò che è rilevante, in questa sequenza dedicata al
Figlio di Maria, è la figura del <Christus al tempo stesso
Patiens e Triumphans: sofferente come quello di Cimabue sulla Croce,
ferito e colpito; trionfante come quello che vedremo in Michelangelo>
(p. 41), quale appare nel Cristo Pantocratore dell’Anonimo
Maestro di Monreale nell’interpretare bene il Mistero della
Redenzione, che non deve essere solo oggetto di pianto sconsolato,
come in Jacopone, bensì di consolazione e di gioia, come
quella Madonna col Bambino di Ognissanti, a cui Giotto conferisce
maggiore dimensione <in quanto simbolo della grandezza dei sentimenti,
che la divinità porta nell’uomo, quindi della possibilità
di redenzione che Gesù Bambino già rappresenta>
(p. 33).
Nella PARTE II, dal titolo Il figlio si è fatto uomo, incontriamo
Piero della Francesca, con la sua già osannata Resurrezione,
e Andrea Mantegna, con alcune opere significative, in particolare
il Cristo morto, accostato a <Che Guevara nella celebre fotografia
del suo corpo martirizzato, così come nei volti contadini
della Madonna e di San Giovanni sembra di cogliere lo stesso dolore
dei genitori del sacerdote polacco Popieluszko, disteso dinanzi
ai loro occhi dopo le inaudite violenze subite> (p. 117). È
di straordinaria capacità percettiva l’osservazione
dell’A. nel dichiarare: <In questa tragedia c’è
qualcosa di implacabile e insieme di meccanico: un contrasto>
donde si evince <l’umanità così intensa da
far percepire la natura divina celata sotto una morte assoluta e
incontrovertibile> (p. 118). Passando ora alla PARTE III intitolata
Questo è il mio corpo, in cui l’A. affronta la lettura
dell’Ultima cena di Leonardo da Vinci, in noi sorge spontaneo
un dubbio, unito al desiderio di appagare una più che legittima
curiosità. Il dubbio nostro è (guarda caso, simile
a quello attribuito da lui stesso a Leonardo): considerato che Sgarbi,
secondo me, si rivela nel suo campo un maestro insuperabile, tanto
che di meraviglia in meraviglia galvanizza tutta l’attenzione
di chi lo segue nelle sue analisi, anche le più ardite, capita
che talvolta non si può fare a meno di chiedergli (immaginando
di averlo presente in quel momento): - Maestro, ma tu ci credi veramente
in quel che intuisci, pensi e dici di un’opera d’arte?
E come fai a capire le intenzioni di un artista, sapendo che la
“forma non s’accorda / molte fiate a l’intenzion
de l’arte, / perch’a risponder la materia è sorda”?
- Non so se, così provocato, ci risponderebbe o che cosa
ci direbbe (lo lascio solo immaginare). <Non c’è
pittore più psicanalitico di Leonardo> (p. 134) lui sostiene
(cfr. a tale proposito quanto è stato detto nel libro, da
me precedentemente recensito, di Flavio Caroli, Storia della fisiognomica).
È una caratteristica indiscutibile della personalità
complessa e dell’ingegno poliedrico di Leonardo; ma chi ci
autorizza a pensare e affermare che quell’uom dal multiforme
ingegno, lasciando incompiuta l’Adorazione dei Magi, sia stato
indotto dal dubbio sulla Natività, che, <generalmente
rappresentato come una festosa certezza>, qui invece gli appare
<dogma ... non tanto liberazione quanto motivo di ulteriore riflessione
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e tormento>
? (p. 125). Di conseguenza, secondo l’autorevole critico,
nell’Ultima cena <Soltanto Leonardo poteva concepire la
figura di un Cristo contraddistinto da una dimensione unica eppure
altrettanto significativa e potente rispetto a quella della sofferenza>
di Antonello da Messina e <del trionfo nel Cristo di Piero>
(p. 134). - Che scoperta! E che Sgarbi ci perdoni! - Oso osservare
questo, non per mancanza di rispetto verso di lui, ma per fargli
constatare con soddisfazione che talvolta il discepolo potrebbe
superare il maestro; certamente è tutto vero e condivisibile
quanto da lui intuito, ma forse non ha pensato che si tratta di
tre momenti diversi del Mistero della Redenzione, onde si giustificano
rispettivamente: la pensosità del Cristo nell’Ultima
cena, la sofferenza nella Crocifissione e il trionfo nella Resurrezione.
Prima di affrontare la lettura della PARTE VII, in cui si parla
di Michelangelo, che nel Giudizio universale in Cristo vede il Figlio
e giudice, giova soffermarsi su tre momenti significativi intermedi
del grande evento storico-religioso: PARTE IV. Intermezzo ferrarese,
in cui possiamo ammirare una serie di dipinti raffiguranti la maternità
di Maria, dinanzi alla quale, immedesimandoci nel Mistero dell’Incarnazione,
si resta in devota contemplazione, come quella di Cosmè Tura,
Madonna in trono col Bambino; di Giacomo e Domenico Cabrini su cartone
di Francesco del Cossa, Madonna con il Bambino; e soprattutto di
Antonio da Crevalcore, Madonna con il Bambino adorati da un angelo,
in cui l’A. vede: <la Madonna e il Bambino singolarmente
malinconici ... e, accanto a loro, inginocchiato su una mezza colonna,
un angelo esterrefatto, letteralmente a bocca aperta> (p. 173),
che sembra veramente una caricatura, onde si spiega il titolo di
questa parte <Antonio da Crevalcore - Lontano dal sentimento>
(p. 167). PARTE V. Intermezzo veneziano, in cui viene offerta alla
nostra meditazione una sequenza di scene della vita di Cristo, che
vanno dall’Annunciazione, alla maternità nella Pala
di San Cassiano, all’Ecce Homo e alla Crocefissione di Antonello
da Messina, che con la Pala di San Cassiano <fa scuola e viene
subito seguito con entusiasmo dai colleghi, come Bellini> (p.
189) in Italia e in tutto il Veneto. Seguono numerose immagini di
Giovanni Bellini: Madonna degli alberelli, Pala Barbarigo, Madonna
con Bambino su un parapetto, Presentazione al tempio di Gesù,
Trasfigurazione – Sul Monte Tabor, Trasfigurazione di Cristo,
Imbalsamazione di Cristo, Cristo deposto in grembo alla Madonna
o Pietà Martinengo, Pietà, infine <Un capolavoro
belliniano nascosto>, Sepoltura di Cristo (p. 211). L’intermezzo
si chiude con Vittore Carpaccio, di cui sono riportate una Fuga
in Egitto (confrontata con quella di Giotto), Presentazione di Gesù
e Cristo morto con ben cinque particolari, che mettono in risalto
la monumentalità di un’opera ricca di significati e
composita sul piano narrativo, cui fa riscontro un’altrettanto
eccellente lectio magistralis dell’A., che ci coinvolge nell’atmosfera
dei vari momenti della storia sacra. PARTE VI. Intermezzo europeo.
Qui si ripropone ancora la sorprendente capacità di Sgarbi
di intendere la storia del Grand Tour, <di quei viaggiatori che
nel Settecento e Ottocento troveranno nel viaggio un’esperienza
più spirituale che di diletto, non tanto uno svago quanto
l’imprescindibile complemento di un’esistenza di studi,
necessario e fondamentale per la propria cultura> (p. 233).
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È il caso del tedesco Albrecht Dürer,
che in Italia lavora seriamente e fa scuola anche, tanto <da
farci ritrovare, nei dipinti di artisti italiani, molti particolari
provenienti dalle sue incisioni> (p. 236). Di lui sono riportati
alcuni dipinti, come il Cristo fra i dottori (bello, divino e sapiente
adolescente, ambiguo alla maniera leonardesca, in mezzo a così
<bestiale, ottuso, spento> vecchiume, p. 242); una Madonna
con Bambino, un <Capolavoro databile intorno al 1494-1495>,
riposto in un convento, miracolosamente salvato forse <dalle
spoliazioni napoleoniche> (p. 243). Ma, al di là del fascino
che può suscitare in noi l’illustrazione critica dell’A.
di questa maternità, giova prendere in seria considerazione
l’opportunità offertaci dalla presentazione di due
autoritratti del Dürer: Autoritratto con guanti e Autoritratto
con pelliccia, che sembra facciano a gara nel voler rappresentare
l’immagine vera di Cristo-uomo; ma il secondo lo fa con maggior
forza e convinzione, dato che, come osserva giustamente Sgarbi,
l’artista vuol significare <non che si senta talmente grande
da poter essere paragonato a Cristo, bensì che Cristo è
un uomo, l’uomo che è in ognuno di noi: Cristo è
tutti gli uomini ed è uomo singolarmente, non avrebbe quindi
senso rappresentarlo con un volto inventato> (p.239). L’Intermezzo
europeo si chiude con il polittico di Matthias Grünewald, Altare
di Isenheim, in cui viene espresso al massimo il dolore di Cristo
Redentore, paragonabile – differenze a parte - solo al <compianto
scultoreo di Niccolò dell’Arca a Bologna> (p.247).
Finalmente si giunge a quello che mi sembra un capolinea, la PARTE
VII intitolata Figlio e giudice, dove tra le figure di contorno,
Sebastiano del Piombo con la sua Pietà e Raffaello con la
sua Madonna di Foligno, campeggia Michelangelo, con la sua Sacra
Famiglia (Tondo Doni), ma soprattutto con la sua ineffabile Pietà
(basilica di san Pietro, Roma) e il superbo Cristo Giudice e Maria
(Cappella Sistina, Roma).
Lascio ai lettori il piacere di apprendere direttamente la lezione
che ci viene impartita, direi quasi gratuitamente, da V. Sgarbi;
mi prendo invece solo la libertà di sottolinearne la coerente
felice enfatizzazione di questo Cristo Giudice, che giganteggia
plasticamente tra tanta umanità di buoni e cattivi, giusta
e ingiusta, nuda proprio perché sta per essere giudicata
e destinata eternamente alle gioie paradisiache o alle pene infernali.
Un Giudice implacabile, inflessibile, non più il dolce Gesù
di Nazaret, il compianto agnello di Dio che toglie i peccati del
mondo, ma il Cristo Salvatore che deve applicare la giustizia divina
imposta dal Padre, anche se quella <Madonna ... insolitamente
remissiva> (p. 273) volentieri si aggrapperebbe al figlio <giudice,
in atletiche fattezze apollinee, severo punitore> (ivi), implorando,
in quanto madre, pietà e misericordia per tutti i figli di
Eva: non si spiegherebbe altrimenti il richiamo alla preghiera di
San Bernardo alla Vergine, con la citazione sia pure parziale dei
versi di Dante. Mentre con la PARTE VII si conclude un ciclo di
opere d’arte, che da Giotto a Michelangelo umanizzano per
così dire il divino, segnandone di prima mano, come in una
sequenza filmica i vari momenti, sul filo di svolgimento indicato
dal titolo e sottotitolo del libro, sì da apparire la registrazione
in diretta del Mistero della Redenzione, con la PARTE VIII, dal
titolo Madre e Figlio di maniera, ci dobbiamo accontentare in qualche
modo di un déja vu, senza nulla togliere al merito degli
artisti (che epigoni non sono), le cui opere vengono proposte alla
nostra fruizione dal grande facilitatore e interprete d’eccezione
Vittorio Sgarbi. Senza mezzi termini l’A. chiarisce subito:
<I pittori manieristi si chiamano così perché dipingono
alla maniera di qualcuno>, i cui modelli <sono Michelangelo
e Raffaello, la cui perfezione nell’arte ha superato la natura>
(p. 298). Tali sono, pur manifestando una personale autonomia tecnico-compositiva,
sintetizzata opportunamente nei rispettivi titoli: Pontorno. L’arte
del sogno – Correggio. La ragione dei sensi – Bastianino.
Forme nella nebbia – Giovanni de Mio. La caducità di
tutte le cose –Jacopo da Ponte detto Il Bassano. Sacri piedi
– Jacopo Sansovino. Il Bambino sfuggente -Jacopo Tintoretto.
Mistica energia – Savoldo. Visione interiore – Moretto
da Brescia. Sacra Conversazione in dialetto bresciano – Santuario
di Mongiovino. Del Figlio rimangono solo i piedi. Come pure, passando
alla PARTE IX intitolata Figlio del popolo, abbiamo specularmente
un’altra serie di pittori di epoca successiva, che manieristi
non sono definiti, ma che pure perseguono un personale personalissimo
stile sulle orme dei maestri passati e recenti. Ecco Caravaggio,
visto Tra la luce dello Spirito e l’ombra della realtà,
che fa scuola a Roma come a Napoli, recando <con sé tutto
il clima del realismo lombardo> (p. 381) e ci è dato da
ammirare <uno dei suoi quadri più armoniosi>, Riposo
durante la fuga in Egitto (ivi); quindi Battistello e Ribera, in
cui traspare La verità della carne, fortemente influenzati,
ma <in maniera personale> (p. 391), dalla Flagellazione di
Cristo del maestro Caravaggio nelle rispettive opere, ad esempio,
in Cristo alla colonna di Battistello. Poi - sorpresa per noi profani
- l’A. ci mette di fronte a Cecco Bravo, che si fa ammirare
con una certa morbosa curiosità per quel suo Cristo confortato
dagli angeli. Segue la figura sui generis di Mattia Preti, <noto
come “Cavaliere calabrese”> (p. 403) con quel suo
Cristo fulminante, che rievoca il Figlio e giudice michelangiolesco,
solo che qui appare evidente ed esplicita <la Vergine, che frena
la violenza del Cristo> (p. 405). Chiude la serie di questo ciclo
Ignazio Stern, italianizzato di origine bavarese, con una sua singolarissima
Natività, opera <in cui i precedenti vengono assimilati
nella traduzione degli amorosi affetti in valori atmosferici, nordici,
perfettamente padani, passando dal cuore all’aria> (p.
412). Con la PARTE X, dal titolo Dopo la lingua nazionale, si conclude
la carrellata delle opere più significative, che, debitamente
illustrate, commentate e messe a confronto autore per autore con
immagini intere (circa 190) e numerosi opportuni particolari, ci
offrono una sintesi completa e ben argomentata dei contenuti espressi
nel messaggio di Cristo Redentore, coadiuvato dalla Beata Vergine
Maria, la Madonna universalmente venerata e invocata per la sua
misericordia, nelle vesti di intermediaria tra l’umana specie
da lei nobilitata e la Divinità. Nel capitolo intitolato
Gesù parla in napoletano, riservato ai pittori Albertis e
Forte, l’A. mette a confronto due coppie delle loro opere,
affini per linguaggio, ma differenti per soggetto (sacro l’uno,
profano l’altro) e conclude dicendo: <Con i loro dipinti
così “neutri”, entrambi commuovono per il candore
con cui manifestano la volontà di distaccarsi dalla scuola
a cui appartengono; come se, attraverso il classicismo, tutti potessero
parlare una stessa lingua pittorica universale> (p. 422); ed
è stupefacente quel candore della figura del Cristo fra i
dottori <un bambino impertinente e anche un po’ antipatico>
(p. 419), forse, ma anche enfant prodige, già consapevole
della sua missione nel mondo, come del resto farebbe capire il Cristo
ritrovato dai genitori, con la sua reazione - <con i capelli
lunghi come un giovane pittore nazareno, con la stessa romantica
allure di un ragazzo che abbia già le movenze di un adulto
– che indispettito alza ancora il dito> (p. 420), come
per redarguire la madre che non comprende l‘importanza del
suo ruolo. Ma nessuna immagine avrebbe potuto rappresentare meglio,
a conclusione di questo viaggio nel mistero, il ruolo di Maria come
la Maternità di Gino Severini, in cui l’A. dice di
vedere <tutta l’umanità della Madonna con il bambino
nutrito dal suo seno. Madre prima che Madonna e madre come tutte
le madri> (p. 428), “umile e alta più che creatura”
(Dante, Par., XXXIII), onde <tutta la sua vita ha senso nel nome
del figlio> (p. 428>, appunto. La situazione inoltre acquista
maggiore valore e significazione, se si pensa che il dipinto raffigura
Jeanne, moglie del pittore, che, nella sua dimessa semplicità
di una mamma comune, allatta il proprio bimbo imprigionato in fasce
strette (non più nudo come tanti puttini, simbolo di innocenza),
alla cui presenza ancora una volta ci si deve inginocchiare, perché
"l’immagine che abbiamo davanti, senza esserlo, ha la
stessa spiritualità di una Madonna con il Bambino" (p.
429).
N. B. Il libro, illustrato da numerose immagini
intere (ben 190 circa), coerentemente scelte in armonia con il discorso
critico-narrativo, e arricchito da preziosi particolari (60 circa),
che rendono ancor più leggibile e godibile ogni opera d’autore,
è corredato di un INDICE DEI NOMI e di un INDICE DELLE IMMAGINI,
accurato e completo. Si legge con piacevole interesse, anche perché
non vi si riscontrano refusi grossolani e inoltre ci fornisce un
esempio di scrittura chiara, piana e tecnicamente perfetta.
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Onofrio Annese, già Dirigente
scolastico in alcuni licei di Roma e poeta satirico.
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