Georg Wilhelm Friedrich
HEGEL, ESTETICA –
Secondo l'edizione di H.G.Hotho, con le varianti delle lezioni del
1820/21, 1823, 1826
A cura di Francesco Valagussa, testo tedesco a fronte –
Bompiani, Milano aprile 2013, euro 50,00.
La difficile lettura di un'opera che perņ ci aiuta a crescere
Ho il piacere di comunicare ai gentili Lettori della nostra Rivista,
in particolare di questa rubrica, che, a tempo di record, la Bompiani,
nel mese di aprile c. a., ha pubblicato la seconda edizione riveduta
e corretta dell’Estetica di Hegel. Nelle mie due precedenti
recensioni (ved. Rivista anno VIII, nn. 32 e 33, 2012) avevo messo
in evidenza i numerosi refusi riscontrati in un’opera così
importante, che non poteva essere lasciata con tutte le più
grossolane mende, con il rischio di screditare la scienza e insieme
chi ne deve garantire la validità con la diffusione.
Fu così che, avendo informato tempestivamente la RCSLibri
S.p.A. di quanto andavo notando leggendo l’opera, ottenni
dalla stessa l’autorizzazione a compilare un elenco puntuale
dei refusi. Vi dedicai mesi di lettura e rilettura attenta, talora
estesa al testo tedesco, per verificare nei casi dubbi la corrispondenza
sostanziale con il testo italiano e rendere quindi più attendibile
e chiara la traduzione, ove fosse stato necessario, con opportune
modifiche da sottoporre all’attenzione del curatore.
Anche se non è stata raggiunta la perfezione con questa seconda
edizione (infatti, a mio modesto parere, bisognerebbe intervenire
con maggiore rigore filologico sotto l’aspetto stilistico,
però si sa che lo stile è l’uomo e si deve rispettare),
l’opera ora è più fruibile, si legge scorrevolmente
senza più inciampare in frequenti refusi talora inspiegabili
e intollerabili, e se ne può meglio apprezzare il contenuto,
la cui comprensione è già difficile sul piano concettuale,
trattandosi di filosofia dell’arte.
Inoltre, data la complessità del pensiero hegeliano, è
molto difficile talvolta seguirne il meticoloso percorso, rappresentato
spesso da numerose frasi incidentali, in funzione esplicativa, e
da astratte argomentazioni, che richiedono non solo la massima attenzione
per seguirne il filo logico, ma anche una esercitata attività
mentale, per cui l’opera potrebbe sembrare destinata a pochi
eletti. Ma non è così: a parte le difficoltà
di immediata comprensione di una materia alquanto ostica, l’Estetica
di Hegel insegna a tutti molte cose, difficilmente reperibili altrove.
Prima di tutto ci permette di apprezzare l’arte in tutte le
sue forme ed espressioni dei tempi passati e moderni, non con la
superficialità del solo mezzo visivo e con la banalità
del giudizio limitato al “bello o non bello”, “mi
piace o non mi piace”, ma con una attenta e profonda riflessione,
che va al di là del puro dato sensibile, dovendo invece prevalere,
dopo un approccio iniziale, l’analisi della soggettività
dell’opera di un autore, che nei casi di eccellenza ha saputo
cogliere più fedelmente l’ispirazione suggerita dall’ideale
dominato dallo spirito.
In secondo luogo, Hegel, ingegno poliedrico e mente altamente speculativa
ed enciclopedica, alimentata da una feconda curiosità di
conoscere, nell’Estetica ha profuso i tesori di un sapere
pertinente a una materia vasta e complessa, ma senza la pesantezza
dell’erudizione, sebbene con la meticolosità del ragionamento
alquanto ripetitivo nella struttura, tipica del maestro che vuole
prima chiarire a se stesso ogni concetto, distinguendo, per poi
somministrarlo agli allievi, che considera dei sodali, quasi una
classe elitaria ammessa ad esperienze esoteriche, come si evince
inequivocabilmente dalla conclusione dell’opera, in cui si
legge (pag. 2913): <Nell’arte entriamo in rapporto, infatti,
non con un congegno meramente gradevole o utile, bensì con
la liberazione dello spirito dal contenuto e dalle forme della finitezza,
con la presenza e la conciliazione dell’assoluto nel sensibile
e in ciò che appare, con un dispiegarsi della verità
che non si esaurisce come storia naturale, bensì si rivela
nella storia del mondo, del quale essa medesima costituisce l’aspetto
più bello e il migliore compenso del faticoso lavoro all’interno
del reale e dell’ingrata fatica della conoscenza. Per questo
motivo la nostra trattazione non poteva consistere in una mera critica
di opere d’arte o nello specificare la maniera di realizzarle;
questa non ha avuto altro scopo se non quello di seguire e concepire
mediante il pensiero e provare il concetto fondamentale del bello
e dell’arte attraverso tutte le fasi che esso percorre nella
sua realizzazione. Auspico che la mia esposizione vi abbia soddisfatto
su questo punto fondamentale, e se il legame che si era costituito
tra noi in generale e in vista di questo scopo collettivo ora è
disfatto (meglio: sciolto), mi auguro, ed è il mio ultimo
desiderio, che si sia creato un nesso più elevato e indistruttibile,
ossia quello dell’idea del bello e del vero, e che questo
da ora in poi sia capace di mantenerci stabilmente uniti per sempre.>
Il raggio di azione del pensiero hegeliano in questo campo, ha l’ampiezza
di un angolo giro, per cui nessun aspetto attinente all’arte
nella sua generalità viene trascurato, ma tutto diventa oggetto
di riflessione finalizzato al perseguimento dello scopo finale unico,
che, come si nota dalla succitata conclusione, è <l’idea
del bello e del vero>. Non c’è genere d’arte
che non sia stato analizzato e sviscerato per vedere soddisfatto
sempre quel suo <ultimo desiderio>, nobile e disinteressato,
quale soltanto gli “spiriti magni” possono nutrire:
scultura, architettura, pittura, poesia (epica, lirica, drammatica),
musica, canto, teogonie, religioni e relative nozioni di teoria
e tecnica, nonché notizie storiche (l’Estetica è
considerata a ragione anche una eccezionale storia dell’arte)
trovano una giusta collocazione nei vari momenti di svolgimento
della speculazione filosofica di questo grande Maestro.
Dei 14 punti del saggio introduttivo, che ci può aiutare
in funzione propedeutica ad addentrarci nei meandri della profonda
speculazione filosofica dell’arte hegeliana, mi sembra interessante
(senza nulla togliere agli altri momenti parimenti importanti) prendere
in considerazione solo i punti n. 4. L’ estetica hegeliana
come luogo di incontro tra Winckelmann e Schiller; n. 5. Il concetto
dell’arte: Schein e Wesen; n. 6. Il ritmo dell’arte:
Vorgefunden ed Erfunden; n.7. Il compimento dell’arte platonica;
n.8. La dimensione storica dell’arte. Il problema della Entpolitisierung
nell’Estetica hegeliana. Tralascio il punto n.11. L’Estetica
romantica, la morte dell’arte e la questione del brutto, che
è stato già oggetto di trattazione nella recensione
pubblicata sul n. 33, Luglio-Settembre 2012, della Rivista; però
aggiungo qui che, comunque la si voglia intendere l’espressione
“morte dell’arte” arbitrariamente attribuita ad
Hegel stricto sensu, essa non cesserà mai di impegnare “le
nate a vaneggiar menti mortali”, che spesso si fermano alla
lettera senza andare oltre, per intendere lo spirito delle parole.
La questione che riveste uno degli aspetti fondamentali dell’estetica
hegeliana viene trattata in particolare nel p. 5., che non può
essere affrontata, se non si prende in considerazione una importante
affermazione del curatore a conclusione del punto 4. (pag. 44):
<L’Estetica potrebbe essere letta come costante tentativo
di sostenere, di tollerare (auf-heben) la concezione dell’arte
di Winckelmann accanto a quella di Schiller, di predisporre un luogo
di mantenimento e (insieme) di superamento di queste visioni della
bellezza.> Proprio così; ed è un grandissimo merito
di Hegel quello di non essersi abbandonato alla vanità di
un pensiero filosofico avulso, completamente sradicato dal dibattito
culturale corrente, dominato dalla concezione dell’arte dei
due studiosi.
Secondo la visione winckelmanniana (pag. 45) “i grandi artisti
della Grecia [...] cercarono di superare la solidità della
materia e, per quanto possibile, di spiritualizzarla”; osservazione
ribadita da Schiller, che pare addirittura estremizzare affermando
(ivi): l’artista “cancella la materia con la forma.”
Si parla dunque di spiritualizzazione della materia ad opera dell’arte,
che, a mio giudizio, non costituisce una contraddizione, bensì
la necessità di considerare il superamento di due aspetti
apparentemente inconciliabili dell’arte, rappresentati dalla
forma e dal contenuto, superamento che Hegel avrebbe potuto conseguire,
se a quel termine <vivente> (pag. 1555), in tedesco <Lebendige>
(pag. 1554), avesse potuto conferire la funzione unificante concepita
da Francesco De Sanctis (cfr. quanto da me sostenuto in proposito
nella Rivista anno VII, n. 28, Marzo – Maggio 2011).
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Il
prof. Valagussa sottolinea giustamente la serietà della ricerca
dell’insigne filosofo in materia di estetica asserendo (pag.
45): <Hegel compie il più grande sforzo speculativo per
superare la dicotomia che da sempre regna nel pensiero occidentale;
mostrare la perfetta adeguatezza dello Schein rispetto al Wesen,
del reale rispetto al razionale. ..... Nel sistema hegeliano dell’arte
si avvicendano i vari modi del nesso tra l’apparire e l’essenza:
dall’insufficienza dell’interno nel suo primo risveglio,
alla piena conformità di interno ed esterno, fino alla dissoluzione
del rapporto medesimo.> Ciò però non significa
che tra quella che si chiama forma e quello che si chiama contenuto
ci sia un annullamento dello Schein ad opera del Wesen, bensì
perfetta assimilazione, integrazione, armonizzazione tra l’uno
e l’altro, perché le parole, che pure esprimono concetti
contrapposti, come in questo caso, di ciò che è reale
e di ciò che è razionale, non possono e non devono
perdere la loro significanza, per cui la materia, per quanto possa
essere spiritualizzata, resta sempre tale, solo che nel processo
di elaborazione artistica si verifica una specie di identificazione,
di simbiosi tra l’uno e l’altro aspetto, attraverso
cui si realizza quell’opera d’arte, tanto più
alta quanto più si identifica con l’interno dell’autore:
proprio come avviene più palesemente nella lirica, secondo
Hegel, in cui (cfr. pag. 2659) <l’uomo (...) nella propria
interiorità soggettiva diventa opera d’arte a se stesso.>
Ma ciò, a mio parere, non vuol dire che esista già
una identificazione all’interno dell’artista tra forma
e contenuto, perché il suo sentire è frutto di un
vissuto, cioè materia, che viene sublimata in poesia, diventando
quella che B. Croce definisce intuizione pura, espressione lirica
del sentimento.
Per chiarire ulteriormente la differenza intercorrente tra il <vivente>
di Hegel (ved. pag. 1555), inteso come il semplice naturale nella
sua rozzezza, e quello del De Sanctis, inteso come un mix di reale
e ideale in perfetto equilibrio, giova richiamare alla nostra memoria
l’affermazione hegeliana secondo cui ciò che è
reale è razionale e ciò che è razionale è
reale: questo, a mio giudizio, ci porterebbe a conludere dicendo
che tra i due studiosi le distanze non sono poi così rilevanti.
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E non credo infine che Francesco De Sanctis,
in quanto antiaccademico e antiretorico, (inizialmente hegeliano
e successivamente antihegeliano circa la concezione estetica metafisica
del filosofo, cui contrappose la sua estetica della Forma, rivendicandone
l’autonomia rispetto alla filosofia), fosse tanto lontano
da Hegel, che pur tuttavia sosteneva (ved. pag. 1555) la necessità
di fare arte attraverso un tirocinio, l’applicazione di una
tecnica e l’esercizio di un labor limae, che non vuol dire
affettazione o artificiosità, bensì perseguimento
della massima naturalezza e semplicità espressa nell’arte
bella. Se poi si legge quello che scrive in proposito René
Wellek (cfr. L’estetica e la critica desanctisiane, in AA.
VV., Letteratura Italiana – I critici, cap. I, Marzorati,
Milano 1970, pp. 194 e ss.), si capirà meglio il valore che
assume in De Sanctis il termine forma, laddove si spiega che “L’arte
è forma, Forma con la maiuscola dal momento che non deve
essere confusa con le ‘forme’, con la lingua, la dizione,
i tropi e le figure retoriche, o con lo stile” (ivi, p. 196)
e si appurerà anche che Hegel “nella parte migliore
della sua estetica riconosce la concreta autonomia dell’arte
come esigeva il critico italiano” (ivi, p. 216), il quale
onestamente attribuiva agli hegeliani, più che al Maestro
stesso, la devianza dalla parte migliore del suo pensiero.
Ma la querelle non finirà mai, in quanto Francesco De Sanctis
in Europa all’epoca rimase (e resta) un illustre sconosciuto,
specialmente in Germania, forse perché le sue idee e la sua
monumentale Storia della letteratura italiana soffrivano troppo
di provincialismo e grondavano eccessivo amor di patria.
Comunque, tornando alla questione inerente alla contraddizione dell’arte
basata sulla inconciliabilità
tra forma e contenuto, a mio modesto avviso, il problema non sussisterebbe,
in quanto, dovendo tendere alla perfezione (giusta e plausibile
aspirazione di ogni artista mai pienamente soddisfatto), il processo
artistico si realizzerebbe quasi per miracolo e nella piena inconsapevolezza
dell’autore, per magia, come, per una certa presa di distanza
dal filosofo, lo stesso Hegel considera l’artista <mago
che evoca, riunisce e raggruppa> (pag. 1417). Questo evocare
ovviamente nasce dal bisogno di conferire <all’interno,
in base all’attività spirituale, un’apparenza
non più solo rinvenuta (vorgefundene), bensì altrettanto
bene (eben so sehr) inventata (erfundene) dallo spirito> (pag.
957). Tale bisogno è così cogente che Hegel, in tutta
la sua investigazione, per arrivare a definire il concetto di bello
e di vero in arte, non si stancherà mai di ribadire il perenne
sforzo dell’artista nel perseguirlo superando la suddetta
contraddizione. Per questo il curatore a ragione può sostenere
che <Hegel compie forse lo sforzo maggiore, (...) per mostrare
in quale senso il poietès sia un autentico facitore, un fabbro
che lavora alla creazione del mondo> (pag. 51); ma io toglierei
quel ‘forse’, in quanto poièo significa proprio
fare, creare, donde il nostro poetare, in tedesco dichten.
Questo ci porta a prendere in esame il punto 7. Il compimento dell’estetica
platonica, secondo cui la pittura, la musica e la poesia, quali
fonte di illusione e produttrici di fantasmi, sarebbero le maggiori
responsabili dello sviamento degli uomini. Però il cosiddetto
‘compimento’ considerato dal prof. Valagussa attribuito
a Hegel, mi sembrerebbe una forzatura, motivato solo dal fatto che
egli realizza <il pieno inveramento, la compiuta realizzazione
di quella concezione dell’arte, sino al punto che il rovesciamento
essenziale presente nell’estetica hegeliana non ne intacca
la validità> (ved. pag. 51). A mio modesto avviso, i due
filosofi di fronte al bello ideale assumono due atteggiamenti diversi:
Platone resta fermo estasiato, in contemplazione, negandone la riproducibilità
ad opera dell’uomo, per quanto abile possa rivelarsi nell’imitare
la natura; Hegel, invece, pur riconoscendone la sublimità,
non rinuncia all’idea che un artista possa conseguirlo, o
almeno avvicinarsi il più possibile, proprio in virtù
di una privilegiata dimensione umana, che in alcuni soggetti, dotati
di talento e soprattutto di genio, può raggiungere la massima
elevatezza. Per rafforzare questo mio convincimento, mi sembra più
che opportuno ricordare le immagini istoriate descritte magistralmente
da Dante nella Divina Commedia (Purg., X, vv. 28-96): si tratta
di figure parlanti quali esempi di umiltà esaltata, plasticamente
impresse in “marmo candido e adorno / d’intagli sì,
che non pur Policleto, / ma la natura lì avrebbe scorno.”
Opere di fattura divina, quindi, appartenenti a quel mondo ideale
del bello difficilmente attingibile; infatti, chiarisce il Poeta
concludendo: “Colui che mai non vide cosa nova / produsse
esto visibile parlare, / novello a noi perché qui non si
trova.” Il solo fatto che Dante abbia potuto concepire e descrivere
situazioni simili, da trasmetterle indelebilmente alla memoria del
lettore, è già abbastanza singolare, quale dimostrazione
della sua genialità di poietès particolarmente ispirato.
Tuttavia non posso ignorare la felice conclusione cui perviene il
prof. Valagussa nel mettere a confronto la Repubblica di Platone
e l’Estetica di Hegel sottolineandone la diversità
di posizione in forma chiastica in relazione alla bellezza ideale;
infatti egli, nell’intento di fornire una ulteriore prova
del compimento dell’estetica platonica ad opera di Hegel,
sostiene: <Platone condanna l’arte come inganno sull’oggetto
mentre Hegel la esalta proprio in quanto atto dello spirito che
avvia il superamento dell’oggetto; ma – insieme –
Platone esalta la bellezza come accesso al sovrasensibile mentre
Hegel la condanna, dichiarandone la morte.> (pag. 58). A proposito
di questa spuria espressione “morte dell’arte”,
giova qui riportare le parole del filosofo tedesco, laddove asserisce
(pagg. 389-391): <Si può certamente sperare che l’arte
si elevi e si perfezioni in misura sempre maggiore, ma la sua forma
non è più il bisogno supremo dello spirito. Benché
possiamo reputare eccellenti le immagini degli dèi greci,
e vedere degnamente e compiutamente rappresentati Dio Padre, Cristo
e Maria, nondimeno questo non ci aiuta per niente, noi non ci inginocchiamo
più.> E che altro vuol significare un tale atteggiamento
di apparente resa o di rinuncia, se non il bisogno di un superamento
dell’ostacolo umano, troppo umano, per elevarsi all’altezza
di quello spirito assoluto da perseguire attraverso la terza forma
di apprensione, che soltanto la filosofia ci può garantire?
Ma, mentre Hegel va avanti nella sua speculazione filosofica alla
ricerca del bello ideale per questa terza via, sistematizzando <l’arte
come storia e ripartirla nelle tre sezioni note: simbolica, classica
e romantica> (pag. 66), il curatore approfitta per avvalorare
la sua tesi dell’integrazione del di lui pensiero con quello
di Platone, ribadendola con la seguente osservazione in calce (pag.
58, n. 228): <Compimento dell’estetica assume qui un altro
significato: l’epoca del pensiero occidentale contrassegnata
dalla coppia Platone-Hegel è anche il periodo in cui questo
dominio sull’arte viene esercitato in modo effettivo e reale;
ciò che però già nel pensiero di Hegel si annuncia,
e che verrà ereditato dal pensiero nietzscheano, segna i
termini di questa visione, poiché la superiorità stessa
del criterio del pensiero sull’arte verrà posta in
discussione.> Inutile dire a questo punto che così si
riaffaccia quella palaia diaphorà, ossia la perenne e sterile
dicussione sull’inconciliabilità tra forma e contenuto.
Per concludere, senza pretendere di essere stato esaustivo, quanto
al p. 8., mi basta accennare solo en passant, per non togliere al
Lettore il piacere di una lettura di prima mano, a quello che è
stato visto dal curatore come <Il problema della Entpolitisierung
(spoliticizzazione) nell’Estetica hegeliana> (pag. 58).
Ciò che qui trovo interessante - e anche alquanto inquietante
– è la citazione riportata dal prof. Valagussa menzionando
il libro di Haym “Hegel und seine Zeit”, nel quale l’autore
sostiene che “la nazione tedesca possiede in se stessa un’estetica
come nessun altro popolo”> (pagg. 63-64). Non è,
secondo me, un’affermazione semplicemente innocente e marginale,
ma la dice lunga, se si pensa all’eccessiva esaltazione contenuta
nel detto tedesco “Deutschland über alles”, per
non dire altro.
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Onofrio Annese, già Dirigente
scolastico in alcuni licei di Roma e poeta satirico.
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