ERRICO BUONANNO, LA SINDROME DI NERONE, In ogni grande dittatore,
un artista mancato – Rizzoli, Mlilano 2013 - € 15,00
L’elogio dell’aurea mediocritas preludio alla libidine
del potere
Questo libro ha tutta l’aria di essere una provocazione, ed
io non esiterei a dire che farà irritare più di qualcuno,
lettori e controllori, detentori dei poteri forti, ragion per cui
suggerirei di ripristinare l’Indice dei libri proibiti: nel
nostro caso libro vietato ai minori di venticinque anni. Esso ci
offre l’occasione per una autoanalisi, al fine di scoprire
in ciascuno di noi, comunissimi mortali, chi si nasconde: un artista
nato o un artista mancato e quindi un potenziale dittatore? (beninteso
però che la stessa domanda vale per qualsiasi altra categoria
di aspiranti alla realizzazione di se stessi, cioè dei propri
sogni, e più precisamente alla gloria). Ma qui è l’artista
che viene chiamato in causa, qualsiasi artista: poeta, scrittore,
pittore, attore, musicista e così via.
Quale capostipite degli artisti falliti per antonomasia è
stato assunto il famigerato imperatore Nerone, anche se altri lo
hanno preceduto in nefandezze di ogni genere; e una ragione di questa
scelta forse si potrebbe cercare laddove nessuno penserebbe: frugando
freudianamente nell’inconscio, il cui tema nel saggio risulta
appena sfiorato. Il sottotitolo (In ogni grande dittatore, un artista
mancato) fa notare inequivocabilmente che Nerone fu dittatore, sì,
ma “grande”: secondo il mio giudizio, “dittatura”
e “grandezza” (da intendersi solo in senso morale) contrastano
fortemente, quindi siamo di fronte a un ossimoro o per lo meno a
un paradosso. Propenderei più per paradosso perché
la grandezza in questi casi (che chiamerei mostruosità o
perversione) è riconosciuta solo dalla massa cieca, abilmente
orientata al consenso, grazie alle male arti e alle mire ambiziose
di una donna dissoluta, priva di scrupoli (Agrippina, la madre)
e di maestri conniventi, opportunisticamente scelti per l’educazione
del futuro imperatore (Burro e Seneca, ad esempio).
Riprendendo il discorso sul genere di libro che vogliamo leggere
insieme ed esaminare per formularne un giudizio, a detta dell’Autore,
esso è anche un manuale, una guida ad uso e consumo di chi
eventualmente, per effetto del suo insuccesso in arte, coltivasse
la sana o insana ambizione (questione di punti di vista) di diventare
un grande dittatore, così per puntiglio o per rivalsa, come
se ne contano tanti lungo il cammino della storia dei popoli di
tutti i tempi. Certo, non si poteva prendere in considerazione la
serie interminabile dei perdenti, dei falliti, dei frustrati, consci
di valere più di chiunque altro, ma che la sorte avversa,
materializzata in giudici e valutatori inattendibili o invidiosi
del successo altrui, ha confinato (e tuttora confina) definitivamente
tra coloro che in arte, per esempio, saranno considerati artisti
mancati, vuoi per la pittura, la scultura, l ’architettura,
che per la letteratura e la musica. Perciò
l’Autore ha conferito al suo lavoro un taglio prettamente
ammodernato, meglio contemporaneo, sia pure partendo da lontano,
addirittura dall’intramontabile e insospettabile filosofo
Platone (artista mancato anche lui, avverso ai poeti, narratori
di favole dannose per la società), teorico dello Stato ideale
con la sua famosa Repubblica: un capolavoro di stato (si spiega
così il significato del titolo “Lo Stato dell’arte”
indicato nella Introduzione dell’opera oggetto della nostra
attenzione): uno stato retto da una classe selezionata sulla base
di princìpi eugenetici, attraverso una sana educazione morale
e una rigorosa formazione tecnica.
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Ciò
che non convince in questo riferimento è il voler far passare
Platone per uno dei tanti artisti mancati, inguaribilmente teso
a trovare una compensazione alle personali frustrazioni, assumendo
(sebbene potenzialmente) atteggiamenti di dominio e di superiorità
sugli altri: secondo me, il grande filosofo, teorico e maestro di
paideia, proprio nel teorizzare lo stato ideale trovò la
strada per auto educarsi, psicoanalizzandosi, senza restare vittima
di un’insana ambizione.
Gli esempi sono quindi tratti dal repertorio dei secc. XIX e XX:
1. Napoleone o della psicopatologia dell’artista esordiente;
2. Mussolini o della patologia del dilettante; 3. Hitler o dell’artista
complottista; 4. Goebbels o della vendetta totale; 5. Marx o del
romanziere segreto; 6. Stalin o del dittatore come critico d’arte;
7. Kim Jong-il o dei manuali di regia. Ma più che nei soggetti
trattati , che potrebbero essere dati per scontati, essendo già
tristemente famosi presso il grande pubblico, credo che la validità
del libro vada individuata nelle Questioni teoriche, con cui si
conclude ciascuno dei sette capitoli. In esse sembra che l’Autore
non abbia voglia di dare delle risposte categoriche alle domande
ivi poste, rendendo così interattivo il momento della riflessione
e tacitamente lascia a noi lettori la facoltà di collaborare
per arrivare ad altre possibili conclusioni o soluzioni.
Tra le questioni più significative (a prescindere da una
collocazione più o meno giusta in relazione al soggetto trattato)
segnalo opportunamente quella del cap. II: la tirannia è
curabile con la psicoanalisi? (pp. 75 e ss.) e quella del cap. III:
conviene elogiare gli artisti mediocri? (pp. 160 e ss.).
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Per rispondere alla prima domanda (la tirannia
è curabile con la psicoanalisi?), l’A. si avvale delle
ricerche degli studiosi Frederick Coolidge e Donald Meltzer, in
cui trova scarsi e deboli elementi convincenti, a tal punto che
non soddisfa con il suo scetticismo, restando ancorato ad una semplicistica
convinzione di un recupero impossibile, e afferma che “il
desiderio di smembramento, penetrazione e violenza racchiuso nel
cuore di certuni artisti” è sfuggito al prof. Meltzer
(cfr. pp. 75 – 78). Volendo entrare in medias res, per dare
un avvio alla riflessione, mi permetto di dissentire e, rifacendomi
al caso di Platone, mi dichiaro possibilista, anche nel caso della
tirannia più spietata, altrimenti quello che chiamiamo stato
di diritto (tanto per estremizzare e restare al nostro sistema giuridico)
sprecherebbe inutilmente le sue risorse nell’applicare la
pura e semplice detenzione, a scopo punitivo, senza considerare
minimamente l’insegnamento del Beccaria, autore del famoso
libro DEI DELITTI E DELLE PENE, alla cui base vige il principio
della strumentalità della pena, finalizzata alla redenzione
del reo.
Quanto alla seconda domanda (conviene elogiare gli artisti mediocri?),
credo che la si possa collegare alla precedente, implicando essa
l’idea di un tentativo di recupero anche attraverso la psicoanalisi.
La lode avrebbe in tal caso la funzione di penetrazione nel profondo
del soggetto, vittima del suo Ego abnorme, e tra le pieghe del suo
inconscio rinvenirne la genesi del disagio, al fine di fargli prendere
coscienza dei propri limiti. L’A. invece, ancora una volta,
rivela il suo scetticismo, basandosi su un unico caso emblematico,
ossia riferendosi alla premiazione del famigerato Radovan Karadic,
poeta, ma anche autore di genocidio e crimini contro l’umanità,
insignito del premio più ambito presso il Centro dei congressi
di Belgrado,nel 2006, e commenta così: “Segno evidente
... che i riconoscimenti non pacificano i tiranni, che la mediocrità
non si accontenta, e che assecondare l’ambizione porta soltanto
a nuovi guai.” (pp. 162-163), dato che altri riconoscimenti
ne avevano esaltato l’intera opera.
Oltre ai sette casi trattati specificatamente, l'A. cita qua e là
en passant altri esempi, come quello di Dionigi, o Dionisio, tiranno
di Siracusa molto temuto per la sua intransigenza, tanto da far
preferire al filosofo Filosseno il ritorno alle “orride caverne”
delle Latomie, dove era stato già condannato, piuttosto che
approvare i versi di quell’ostinato illuso (cfr. pp. 45-46).
Non sono taciuti i nomi di: Fidel Castro, Robert Mugabe, Saddam
Hussein, Muahmmad Gheddafi, ed altri passati e presenti, che pur
si conoscono, o che si nascondono nell’anonimato, come osserva
Buonanno nella Conclusione dell’opera intitolata Il Tempo
è tiranno, alludendo ai terroristi, credo, “i protagonisti
delle nuove rivolte del Duemila.” (p. 191)
Il Saggio si legge volentieri in una prosa dal periodare breve,
a volte telegrafico, con frasi ellittiche; si svolge sul filo sottile
dell’antifrasi e fa credere ai vanesi che l’autore è
un loro sincero consigliere. È corredato di numerose note
e citazioni, di una ricca Bibliografia e di Articoli di giornalisti
quotati; però è caratterizzato talvolta dall’assenza
di rigore strutturale nella collocazione del copioso materiale,
reperito con una certa acribia. Tuttavia ritengo che i nostri Lettori
eccellenti, non quelli allusivamente mediocri immaginati dall’Autore
(ved. p. 79), troveranno utili spunti di riflessione, finalizzata
all’autoeducazione, sull’esempio di Platone, e alla
conoscenza del mondo e di chi lo governa malamente. Infatti, conoscendo
meglio se stessi (nosce te ipsum) e gli altri, è sperabile
che le cose cambino, specialmente in politica, scegliendo bene i
propri rappresentanti, non tra “tanti artisti falliti”
o, peggio, malfattori, che in politica trovano l’agognata
realizzazione, ma tra persone oneste e interessate esclusivamente
al bene comune, escludendo categoricamente i cosiddetti ineleggibili,
per recente legge.
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Onofrio Annese, già Dirigente
scolastico in alcuni licei di Roma e poeta satirico.
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