VITTORIO SGARBI, IL TESORO D’ITALIA. La lunga avventura dell’arte
Introduzione di Michele Ainis,
Bompiani, Milano - Seconda edizione dic. 2013 - € 22,00 - pp.
465
Una benemerita azione educativa di sensibilizzazione e di conoscenza
quella che V. Sgarbi continua a svolgere, infaticabilmente da anni
ormai, impiegando tutte le sue energie e le sue competenze nel campo
della storia dell’arte. Lui è onnipresente nel nostro
Paese, da Nord a Sud, da Est a Ovest e in televisione, al punto
da poterlo considerare per così dire ubiquo. E, questo, tutto
per il suo unico amore: l’arte, Il tesoro d’Italia,
appunto.
Perciò non mi sembra difficile intravedere in quel “tesoro”
del titolo anche il suo tesoro, che ha sposato per amore, quasi
novello “fi’ di Pietro Bernardone”, che, sposando
madonna Povertà, “poscia di dì in dì
l’amò più forte”.
E come non innamorarsi di tutta l’arte italiana? Specialmente
poi se si scopre, grazie a Sgarbi, che molti autori (una quarantina,
per ora) noti e meno noti hanno lasciato la loro impronta indelebile
spesso in luoghi sperduti, borghi, villaggi e paesini, senza assurgere
alla gloria dei più famosi; pittori ignoti al gran pubblico,
anonimi noti a un ristretto pubblico locale, inadeguato forse alla
comprensione del giusto valore artistico di quel Cristo, di quella
Madonna o di quel Santo protettore, apprezzati e venerati spesso
solo per eventuali benefici materiali (le cosiddette grazie). Pittori,
dicevo, che la critica ufficiale talvolta ha ignorato o addirittura
‘defraudato’, disconoscendone la paternità, attribuita
ad altri; oppure non ha mai preso in seria considerazione, perché
ritenuti privi di talento e di alto ingegno; e magari ebbero a soffrire
persino fame e umiliazioni. Ma, finalmente, tanta arte di incerta
attribuzione, ignota o ignorata, quasi madonna Povertà “dispetta
e scura”, oggi viene portata alla luce trionfante, per merito
di Vittorio Sgarbi, collocata accanto ai grandi, a partire dal sec.
XI, fino al Rinascimento e anche oltre, fino al Novecento, secondo
il piano completo dell’opera.
L’Introduzione di Michele Ainis, più che una ferma
requisitoria di un pubblico ministero contro la ben nota incuria,
basata onestamente sulla concretezza di fatti e dati alla mano,
è un accorato grido di dolore di una persona sensibile alla
questione culturale e competente giuridicamente, la cui voce si
associa degnamente a quella dell’Autore, nell’ennesimo
tentativo di dare corpo alle idee e di sensibilizzare al massimo
la classe politica e dirigente, affinché la cultura e l’arte
non siano mai più neglette in questo nostro Paese, inutilmente
bello solo di nome e non di fatto. È un piacere leggerla,
questa introduzione, specialmente perché ci istruisce e non
ci indigna, ci induce infatti a riflettere seriamente sullo stato
delle cose in Italia, in materia di patrimonio artistico e culturale,
che avrebbe bisogno di una pronta e irrinunciabile valorizzazione,
mediante una coraggiosa politica di investimenti di risorse umane
e finanziarie. Se la nostra classe politica e dirigente continua
a mostrarsi ottusa e incapace di conoscere e ri-conoscere il valore
di una simile ricchezza, mi viene spontaneo asserire che la colpa
è nostra, di noi elettori incapaci di scegliere e di farci
sentire e ascoltare, sì, perché qualcuno disse: ogni
popolo ha il governo che si merita.
Noi ora, forti di una tale convinzione, lungo il percorso storico
narrativo al seguito di Vittorio Sgarbi, che ci aiuta a scoprire
il tesoro da valorizzare, rinvenuto laddove nessuno ne sospettava
l’esistenza, armiamoci via via di buoni propositi, al fine
di promuovere una radicale rivoluzione culturale, oltre che politica,
economica e sociale.
Con
il Prologo si apre il sipario e subito l’A. ci promette “scoperta”
e “sorpresa”, accenna con un’abile carrellata
al tesoro da rinvenire principalmente nelle Marche “plurali”
e conclude precisando: “Di tante tappe, allora, verso la felicità
espressiva del Rinascimento, questo libro, come una lunga avventura,
dà conto in una continua sorpresa.” (p. 8)
La PARTE I comprende dieci capitoli, di cui il I è dedicato
alla scultura (In principio fu la scultura) di Wiligelmo, “il
più importante maestro della scultura romanica in Italia”,
che nel duomo di Modena ci offre una rappresentazione originale
dei temi del Genesi, illustrando “il dramma dell’uomo”
in un modo coinvolgente eccezionalmente “persuasivo”,
“veloce” e “sintetico” (pp. 13 – 18).
La rassegna segue con le opere del maestro Benedetto Antelami, attivo
a Parma anche in qualità di architetto, al quale si attribuiscono
“le sculture del duomo di Fidenza, il Ciclo dei mesi destinato
al duomo di Parma” (p. 21), che l’Anonimo ferrarese
Maestro dei Mesi riprenderà con la stessa “geometria
delle forme ... arricchendola di un gusto per i dettagli di meticoloso
realismo.” (p. 30)
Continuando l’excursus sulla scultura, Nicola Pisano (p. 33),
come il figlio Giovanni, annoverato “tra i grandi maestri
della scultura gotica”, viene ricordato accanto a Wiligelmo
e Antelami per il fatto che “concepisce la scultura come una
sola cosa con l’architettura”. Della sua Fortitudo (pulpito
del battistero di Pisa) in particolare viene evidenziata una peculiarità
tipica del David di Michelangelo, ossia “un corpo vero, con
le morbidezze della carne e i muscoli di un giovane atleta”
(p. 38). Quanto all’opera del figlio Giovanni, a proposito
della sua spiritualità sintetizzata nel Monumento funebre
a Margherita di Brabante, l’A. con la sua solita devozione
e uno spiccato senso dello spirituale osserva : ”Mai prima
la scultura aveva rappresentato una condizione psicologica e al
tempo stesso spirituale come in questi gesti di pietà e di
elevazione nei quali si sente lo spirito di Dio” (p. 39),
riferendosi al sollevamento verso il cielo, ad opera di due angeli,
del corpo di lei risorto.
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Che dire di un Marco Romano, “grande scultore sommerso”
(p. 41), che del suo San Simeone dormiente su un sarcofago Sgarbi
dice: “Nessun artista, neanche nell’antichità,
e prima di Jacopo della Quercia con Ilaria del Carretto, aveva rappresentato
il sonno con tanta delicata verità”? (p. 42). È
bello inoltre apprendere dallo stesso critico che “la sua
improvvisa riapparizione costituisce una sorprendente novità
e declina la scultura in una dimensione, per l’epoca, assolutamente
inedita.” (p. 42)
Il Cpitolo I. In principio fu la scultura si chiude con Tino di
Camaino con cui “la scultura italiana raggiunge la sua prima,
piena maturità” (p. 45); e in questo non si può
contraddire Sgarbi, che nelle due opere offerte alla nostra ammirazione
(Allegoria della Carità e Monumento funebre al vescovo Antonio
dell’Orso) ci permette di osservarne l’assoluta naturalezza
in atteggiamenti del tutto umani: il vescovo seduto, leggermente
assopito, con “un’immagine umanissima, affettuosa, estranea
a ogni visione aulica e solenne” (p. 45) e “l’Allegoria
travolta dall’energia umana, dalla remissiva naturalezza di
madre Carità” (p. 48). A questo punto, a mio giudizio,
si può notare chiaramente che dall’arte per così
dire naïf, o meglio acerba e primitiva ma vigorosa e incisiva
di Wiligelmo, e via via più raffinata di quelli che precedettero,
ad es., Giovanni Pisano, si arriva ad una maggiore attenzione per
lo stile con Tino di Camaino, in virtù dello studio della
pittura a Firenze, per cui giustamente il critico sostiene che l’artista
aggiunge “alle forme plastiche una morbidezza e una delicatezza
pittoriche” (p. 45).
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Passando in rassegna le maestranze dei capp.
successivi, vissute all’ombra dei grandi, di Giotto, ad es.,
agli occhi del lettore balza più evidente la meritoria opera
di recupero e di riscatto di V. Sgarbi, sotto i cui riflettori risplende
altrettanto degna di ammirazione l’arte dei numerosi anonimi,
ivi compresa la parvenza inconsistente dei discepoli. Si va dalle
Tessere siciliane di Cefalù, Monreale, Palermo, in particolare
dell’Anonimo autore di un Cristo Pantocratore, ai tre valenti
Maestri di Anagni, le cui “identità e cronologia sono
problematiche” (p. 63), il primo dei quali detto Maestro delle
Traslazioni, il secondo detto Pittore Ornatista, l’altro,
più notevole, il Terzo Maestro, che con il Maestro della
Scala Santa in Laterano dà inizio alla “moderna scuola
romana ... travolta” però dalla “scuola toscana
con l’opera di Cimabue e Giotto” (p. 69). Di Jacopo
Torriti viene detto che “è un mistero, ma il buio sulla
sua esistenza ... è ... dissolto”, anticipatore “della
scuola toscana” (73), “ad Assisi non era già
più bizantino ma neoantico” (p. 77). Pietro Cavallini
è “l’altro padre della pittura italiana”,
attivo a Roma, forse ad Assisi e poi a Napoli, ingiustamente declassato
“a discepolo di Giotto” da Giorgio Vasari, “stabilendo
un anacronismo anagrafico paradossale e creando un pregiudizio storico-artistico
sopravvissuto cinque secoli.” (p. 79). Di Niccolò Bartolomeo
da Foggia (p. 84) viene segnalata una meravigliosa scultura, la
Testa di Sigilgaida del duomo della città di Ravello; di
questa figura affascinante per il mistero che la circonda, il critico
dice (p. 84): “Niccolò di Bartolomeo, se ne è
l’autore, ha con lei concepito un archetipo che ... compete
con Ilaria del Carretto; con la Dama del Mazzolino di Andrea Verrocchio,
con la Paolina Borghese di Antonio Canova. Espressioni tutte di
un eterno femminino che la pietra rende resistente al tempo.”
Ed ecco Giotto a Padova con la sua “rivoluzione”, che
“descrive con i fatti le emozioni, ... gli stati d’animo,
le delicatezze e il rimpianto” (pp. 102 – 104): si pensi
al delicatissimo Incontro tra Gioacchino e Anna nella Cappella degli
Scrovegni. Ecco Maso di Banco al suo fianco ad Assisi, della cui
vita poco si sa, ma che, con il suo stile significativo come di
“un artista astratto” maturato a Firenze, in Santa Croce,
produce “effetti scenografici ... corrispondenti alla poetica
metafisica di De Chirico” (p. 107). Tra i “numerosi
artisti di altissimo livello, non di rado anonimi ... in area senese
... o in area pisana”, si trova “un altro grande anonimo:
il Maestro di Santa Cecilia a Firenze, che Sgarbi definisce “un
Piero della Francesca del Trecento” (pp. 113 – 114),
in quanto “porta alla compiuta coscienza della prospettiva
per via matematica”. Bernardo Daddi, “fedele e devoto
allievo di Giotto” (p. 126) viene visto “come l’ordinatore
delle invenzioni di Giotto depurate da ogni pulsione, contenendo
la prevalenza dei sentimenti umani sulle virtù cristiane.”
(p. 128)
A Siena, Duccio di Buoninsegna, considerato il più grande
dei bizantini, non imitatore ma perfezionatore, nella sua Maestà
esalta al massimo la spiritualità e la sacralità del
pensiero divino e a differenza di Giotto, che mira a “trovare
Dio attraverso l’uomo”, lui “anche un filosofo”
intende “trovare l’uomo attraverso Dio” (p. 134);
mentre l’Annunciazione di Simone Martini, osserva il critico
con spiccato senso intuitivo, “è una danza, un tango
che si è impresso nella nostra memoria proprio come un motivo
musicale, con un ritmo determinato dalla mossa dell’angelo
da cui deriva il memorabile arretrarsi della Vergine” (p.
140), e testimonia la maestria dell’artista nel dipingere
“un pensiero, un’idea, un mistero, senza residui naturalistici."
Un breve cenno ai fratelli Pietro e Ambrogio Lorenzetti mi sia consentito
solo per segnalare la scarsa conoscenza dell’identità
del primo, ma non della sua opera, in cui “si avverte ...
forte, più ancora che in Giotto, il gusto moderno, l’intenzione
di trasformare il mito in storia, con lo stesso spirito e con lo
stesso obiettivo del fratello Ambrogio” (p. 149), il quale
ultimo, a detta del Vasari, fu ‘gentiluomo e filosofo’,
per il “così esplicito carattere civile” (p.
152) dell’opera intitolata Effetti del buon governo in città
e in campagna. Questo ci permette un ulteriore cenno al Maestro
di Badia Isola, che Sgarbi, con piena soddisfazione, come per una
riuscita “caccia al tesoro” (p. 155) (interessante e
curiosa la circostanza del rinvenimento della sua opera Madonna
con Bambino!), definisce “il meno anonimo degli anonimi”,
addirittura “identificato con lo stesso Duccio” (p.
156). E mi fermo qui per non togliere al lettore il piacere di altre
sorprese da scoprire nei rimanenti quattro capitoli di questa prima
parte, nella quale figurano analizzate le opere di quaranta artisti
circa.
La PARTE II comprende quattro capitoli, in cui sono ampiamente commentate
le opere di trenta artisti circa. Come la prima parte, questa occupa
quasi lo stesso spazio: credo che ciò dipenda dal maggior
peso di quel TESORO D’ITALIA di cui si intende dar conto di
sorpresa in sorpresa nei secoli successivi, sempre più fertili
di ingegni e di opere d’arte, specialmente a Firenze dove
“letteralmente il ri-nascimento si compie” (p. 400)
con Andrea del Castagno.
Di assolutamente notevole in questa seconda parte c’è
quanto ci fa osservare Sgarbi: “Come per un capriccio della
storia, il primato fiorentino e anche quello veneziano lasciano
il campo a quello marchigiano” (p. 363), dove primeggia Gentile
da Fabriano, che nell’Adorazione dei Magi rivela “una
capacità unica di restituire la morbidezza, il profumo dei
corpi, la dolcezza dei volti.” (p. 264)
Alle Marche resta fissa l’affascinata e affascinante visione
del critico, che già di esse nel Prologo dice: “Le
Marche sono insaziabili di bellezza” (p. 4) e ne fa un’ampia
rassegna, citando i luoghi dove ci guiderà alla scoperta
del bello artistico e paesaggistico. Il libro si legge più
che volentieri, per la capacità affabulativa di un critico
sui generis, che sa le cose e le sa interpretare, nonché
valorizzare, dando alla sua azione educativa quell’impronta
simpaticamente teatrale, che non dispiace e che riesce efficacissima.
Un libro che si consulta avidamente, volgendo le pagine avanti e
indietro nell’intento di mettere meglio a fuoco i particolari
suggeriti dall’A., come straordinarie peculiarità di
questo o quell’artista, specialmente in presenza di quelli
per cui intende sorprenderci e farci sorprendere.
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Onofrio Annese, già Dirigente
scolastico in alcuni licei di Roma e poeta satirico.
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