Eleonora Duse \ Gabriele d'Annunzio, Come il mare io ti parlo –
Lettere 1894 – 1923 -
A cura di
Franca Minnucci – Bompiani, Milano Aprile 2014 – pp.
1408 - € 30
Eleonora Duse e Gabriele d’Annunzio amanti: vittime e carnefici
entrambi, l’una dell’altro? O lei la vittima e lui il
carnefice o viceversa? Una questione assai complessa, complicata
dalla leggenda.
Il molteplice interrogativo, che mi son posto durante la lettura
del libro, evidenzia la problematica conclusione cui sono giunto,
credendo di avere sciolto un dilemma difficile. Tra mille remore
e con un certo disagio, mi sono reso partecipe del ménage
à trois (triangolo!) dei due protagonisti dell’epistolario
(prevalentemente della Duse), che Giorgio Barberi Squarotti considera
“un lunghissimo romanzo romantico, proprio sull’orlo
estremo del romanticismo” (cfr. Postfazione, pp. 1382-1383):
‘romanzo’, a mio giudizio, definizione riduttiva: traviserebbe
la realtà dei fatti, che pure furono vissuti da Gabri e Ghisola
all’insegna dell’inimitabile; aspirazione peraltro da
essi sentita come bisogno naturale di elevazione, attraverso il
culto dell’arte e della bellezza, tendente all’Assoluto.
Non rivelo la mia conclusione e lascio all’intelligenza di
chi legge la libertà di concepirne una diversa, anche del
tutto nuova rispetto alla leggenda. La collocazione del lettore,
terzo incomodo, dovrebbe essere quella definita dal De Sanctis situazione
in cui calarsi, per comprendere un’opera letteraria e non.
Consiglierei un approccio metodologico di lettura che non prescinda,
in prima istanza, dalla NOTA ALL’EDIZIONE della curatrice
e dalla lettura integrale di tutti i documenti (lettere e quant’altro),
ivi compresi i commenti esplicativi, in calce lettera per lettera,
che costituiscono il tessuto connettivo della ricostruzione storica
della vicenda amorosa (1). Suggerirei invece una lettura che di
proposito rimandi al termine di un faticoso apprendimento della
storia (tormentata dalla gelosia mascherata della prima donna e
dalla disarmante licenza del poeta, fedifrago per costituzione naturale)
la conoscenza del punto di vista di Annamaria Andreoli, autrice
di una lunga Postfazione, Storia e leggenda dei ‘divi’
amanti (p. 1259): ricostruzione rigorosa del sodalizio, suffragata
da opportune citazioni, un “amplissimo saggio ... che”
– osserva G. B. Squarotti – “è un capitolo
fondamentale di interpretazione” (p. 1385).
Quindi, Avviso ai naviganti! Non sarà una passeggiata leggere
un libro il cui titolo Come il mare io ti parlo (2) la dice lunga
e non offre possibilità di evasione, ma di coinvolgimento;
anzi, la lettura dell’opera richiede uno sforzo continuo,
per superare ostacoli rappresentati da assenza di logica espressiva
(ci si imbatte in quella che B. Croce definisce espressione lirica,
pura, alogica, del sentimento) e soprattutto da una scrittura formalmente
spesso inconcludente, infantile, caratterizzata da un uso arbitrario
della punteggiatura e di segni grafici inusuali, apparentemente
superflui, che l’autrice-attrice intende per se stessa, abituata
com’è a recitare sempre, anche oltre il palcoscenico.
(3)
Penso che la Eleonora più vera, umana, sia quella delle due
lettere (366 e 371 del 1904) indirizzate ad Alessandra di Rudinì,
la rivale di turno: vi si coglie la reale dimensione, dove non c’è
l’attrice-amante gelosa che si sfoga, bensì la donna
che implorando si rivolge d’anima ad anima (p. 957) e rivendica
a sé l’esclusivo amore per quel lui: “ditemi,
voi, se questo potete fare per Lui” ella chiede in extremis
(p. 959).
Ora, considerando la Storia globalmente, nella fattispecie dell’epistolario,
immagino che la prima reazione, avvertita da un lettore non morbosamente
curioso, si manifesti in una delicata remora: l’intrusione
della propria persona nel segreto mondo di due amanti mi sembra
un’irruzione arbitraria e inopportuna, perché la conoscenza
degli aspetti intimi, di pregi e difetti, dell’uomo o della
donna, potrebbe implicare un ridimensionamento del valore dell’artista,
del poeta o dell’attrice, anche se si tratta di dimensioni
diverse, inconfondibili (cfr., in proposito, Giorgio Barberi Squarotti,
cit., p. 1381). Bisogna quindi entrare in punta di piedi, violando
con discrezione per così dire la loro privacy.
... Eleonora Duse, l’amante ‘diva’ alla cui scomparsa
d’Annunzio ammise: È morta quella che non meritai,
grazie a questo libro, ci appare viva e rivive in noi con il suo
amore unico e possessivo (anche delle cose e delle persone, se si
considera l’attaccamento morboso a Cicciuzza (Renata, figlia
del poeta e della Gravina) e, per assurdo, alle stesse amanti di
d’Annunzio, contro le quali non si scaglia mai con veemenza;
nei confronti del fedifrago assume l’atteggiamento protettivo
e comprensivo di una madre, disposta a perdonare tutto al figlietto
dolce. Proprio così: del resto “Quale amore potrai
tu trovare, degno e profondo, che vive solo di gaudio?” scriveva
l’attrice nel 1904, dopo la rottura con quel lupetto d’Abruzzo,
di cui si era invaghita perdutamente, al punto di confessare senza
pudore: “Gli perdono tutto, perché ho amato”.
Dedizione totale, che non si tramuta però nel catulliano
odi et amo, ma che è pure intenso: intero io direi, essendosi
lei, la grande diva famosa nel mondo, donata senza riserva al divo,
all’artista (nel quale sembra credere ciecamente per fini
meno nobili, trattandosi di collaborazione finalizzata al successo
e al vivere inimitabile), più che all’uomo, esaltandone
il dono divino della parola.
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Infatti Eleonora, al culmine della sua carriera e della vita, minata
dalla tisi, da eroina della tragedia greca, interprete di se stessa,
declama (lettera XC, p. 1254): “Io voglio l’incanto
– e questo malessere fisico che è una diminuzione di
forze, mi turba – è come una nebbia dall’anima
al corpo – e temo disgustarti. Io sono tutta e tutte le forze
che straripano in te, e non so andare a nuoto con te, per l’acqua
fonda = Sei tu il più forte – E sia – che io
sia la più fida - = Vale? = non so = Io sento, (e quanto)
l’incanto / nell’arte/ che tu stesso sai creare e donare
a te stesso!” Infine, indignata, ma pur sempre generosa, esclama
come per congedarsi: “E Goditi il dono!” – Che
più??” È il momento dell’addio, della
rimozione senza rimpianto di quell’amara esperienza amorosa,
ormai inutile per lei, spirito veramente più forte dell’amante
platealmente infedele, che lei non riusciva a seguire “nell’acqua
fonda” del di lui smisurato solipsismo. Ma non sarebbe l’epilogo
di un dramma raffigurante tutta la vita della divina Duse/Deus?
Sulla figura di d’Annunzio non mi sembra facile pronunciarmi,
dipende dell’angolazione scelta per interpretarne parole e
azioni, vita e arte, in lui tendenti a identificarsi: un personaggio
complesso, pieno di atteggiamenti contraddittori, di ambizioni smisurate,
un bambino viziato, umile e arrogante; facilmente criticabile l’uomo,
il presunto carnefice, non il poeta eccellente, sia pure presuntuosamente
assistito dallo spirito divino, infatti egli stesso esclama esaltandosi:
’O poeta, divina è la parola; / ne la pura Bellezza,
il ciel ripose / ogni nostra letizia; / e il Verso è tutto’
(L’Isotteo, Epodo).
Un bersaglio facile quello che oggi chiameremmo un “fichetto”,
per i suoi tratti delicati, la sua statura (‘piccolino con
la testa ricciuta e gli occhi dolcemente femminili’, pervaso
da un ‘senso di barbarie’ ‘curiosamente commisto
a una nativa gentilezza di donna’ osservava Scarfoglio); un
dandy (‘animale di lusso’ si autodefiniva per le sue
stravaganze nella ricerca di tutto quello che la vita poteva offrigli
(in questo peraltro viziato da una compagna spendacciona), impegnato
in un intenso e spasmodico, attivismo, dedito com’era alle
cacce a cavallo, ai duelli, alle imprese sportive, agli amori teatrali,
per non parlare di altro, già noto al grande pubblico, o
dei debitori che lo assillavano, costringendolo alla fuga.
Lascio da parte l’uomo e prendo in considerazione il poeta,
il vate, l’artista che visse intensamente la sua avventura
all’insegna dell’inimitabile, contagiando anche l’amante:
il prototipo del nietzschiano Superuomo supponente, sebbene l’istrionica
sua personalità lo portasse a recitare la sua parte con una
straordinaria capacità di immedesimazione, tale da rendere
credibile ogni suo gesto elitario, ogni atteggiamento nobile, ogni
atto sublime, che i suoi coetanei – meno Guido Gozzano, -
scimmiottavano.
Accanto a questo animale di lusso si era (im)posta, ossessivamente,
E. Duse, donna pervasa dalla mania di grandezza nel suo essere attrice
autonoma, organizzatrice di spettacoli e indipendente. Sinceramente
innamorata di chi non la meritava? Forse. Ed è questo il
motivo donde scaturisce il vero amore, la molla di attrazione esercitata
da chi sfugge alla serietà di un rapporto duraturo, interamente
dedito al piacere? Del resto d’Annunzio ammetteva con vanto
e spavalderia: “Il bisogno imperioso della vita violenta –
della vita carnale, del piacere, del pericolo fisico, dell’allegrezza
– mi hanno tratto lontano.” (lett. 17.7.1904); ma anche
contraddittoriamente: ‘’sono un povero uomo’’
(lett. 431, p. 1099).
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... Di fronte a simile tracotanza Eleonora
appare disarmata e umiliata, ma non vinta e rassegnata, lei sa bene
come rispondergli, mantenendo la sua dignità: “Non
parlarmi dell’impero, della ragione della tua ‘vita
carnale’, della tua sete di ‘vita gioiosa’. -
Sono sazia di queste parole! – Da anni ti ascolto dirle. Non
ti posso seguire interamente, né interamente comprendere”
(lettera 397, p. 1031) [ ] “Quale amore di donna potrai tu
trovare che non sia legato alle stesse leggi della vita? Quale amore,
degno e profondo, che vive solo di gaudio?” (ivi pp. 1032-1033).
Così lei dimostra di avere il coraggio di rompere con sufficiente
fermezza un rapporto sempre in bilico con un soggetto indegno, candidamente
incapace di resistere all’impulso sfrenato dei sensi, falso
anche quando ammise di non averla meritata.
Catullo, Dante e Petrarca a d’Annunzio non avevano insegnato
nulla e mai avrebbero potuto, se quell’impasto di molteplici
velleità non era ricettivo e sensibile alle esigenze del
vero amore, che è dedizione e, paradossalmente, rinuncia
ad essere riamato per amore dello stesso oggetto, come invece avvenne
in Eleonora. La quale nella sua corrispondenza (lettere e telegrammi
frequentissimi) si annichilisce di fronte all’amato, magnificandone
la forza dell’ingegno, esaltandone i tratti fisici delicati,
spinge oltre il suo sentimento amoroso singolare, ricorrendo alla
femminilizzazione dei diversi nomignoli (es. Pimpinella, bimbetta
ecc.) o ad altre espressioni sdolcinate e stucchevoli (es. figlio,
figlietto, ecc.), che il vanesio non disdegnava e lei esagerava
(cfr. passim: putto, puttino, boboli, cimpoli, pimpini, ecc.); addirittura
(ved. p. 316) lo chiamava ((((Cicciuzza mia, Tu.)))), contaminandolo
con Renata, che amava possessivamente per possedere Gabri, Gabrioletto,
bambinotto: un giocattolo, insomma, preda della di lei follia amorosa,
se si nota il suo linguaggio talvolta infantile, spinto fino alla
palilalia.
La modestia non era virtù privilegiata da d’Annunzio,
che, ritenendosi un ‘’animale di lusso’’,
si atteggiava a personaggio sui generis, in contrasto con il normale
vivere comune: genio e sregolatezza in lui si sposavano, sì,
ma come in una finzione, una scelta motivata dall’ambizione
per l’eccellenza più che dalla convinzione di essere,
ad esempio, amante fedele o anche tribuno, soldato, aviatore per
dovere e sentimento patriottico. Arte e vita in lui si (con)fondevano
e parimenti si scindevano, non essendo armonizzate e sorrette dall’aspirazione
ad un ideale di bellezza assoluto, fortemente avvertito invece da
Eleonora. I numerosi amorazzi del vate divo, consumati specialmente
con depravata sperimentazione nell’ultimo periodo presso il
Vittoriale degli Italiani, stavano a rappresentare il fallimento
di una vita vissuta da esteta senza valori morali (infarcita di
falso misticismo, di erotismo, di esibizionismo), donde derivò
tutto l’amaro che lo accompagnò negli ultimi giorni.
Eppure di costui, di codesto Gabri sembrava perdutamente innamorata
la nobile anima della grande attrice! “VEDO IL SOLE e ringrazio
tutte le buone forze della terra per avervi incontrato” si
legge nella lettera 1, riconducibile all’inizio di quello
che sarà un sodalizio quasi decennale (Venezia, settembre
1894), che durerà fino al 1904, con tentativi infruttuosi
di riconciliazione anche negli ultimi anni di vita dell’attrice.
D’altronde la malattia della Duse fu una cosa seria, al di
là di qualsiasi dubbio anche da parte dello stesso ‘divo’,
teso a conseguire il successo nella drammaturgia, con o senza di
lei, Interprete e Rivelatrice del suo teatro tragico, classico ammodernato,
che secondo un suo ambizioso progetto – mai realizzatosi –
meritava di essere recitato en plain air, per redimere la ‘Folla’
mediante la ‘Bellezza’ (4). Mistero dell’animo
umano! Ma fino a che punto possiamo credere all’una o all’altro,
restando al rapporto amoroso, per capire chi era la vittima e chi
il carnefice? E quanti vizi e virtù il lettore potrà
scoprire nei ‘divi’, per avere conferma della riflessione
terenziana: homo sum, nihil humani a me alienum puto! (5)
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(1) Penso di fare cosa gradita
alla curatrice, se, a mo' di ringraziamento per il piacere che ci procura
la lettura di questo libro, riporto un suo giudizio finale (p. 1136, relativo
al biglietto 460 - DUSE A D'ANNUNZIO): "AGV, il biglietto trovato nel
fascio di carte, senza luogo e senza data, è qui posizionato fuori da
ogni rigore filologico a chiudere idealmente questo lungo e travagliato
incontro di vita, d'arte e di passione. Tra realtà e sogno racconta un
desiderio di amore, di bellezza, e di pace che va oltre la vita, oltre
la morte."
(2) Il titolo è tratto dalla lettera 318, (Boston, dal 30 al 31
ottobre 1902), righe 5-11, p. 805, che si legge anche nell’originale
riprodotto parzialmente a p. 23: “- Gabri! – Gabri –
figlietto dolce! quante buone lettere m’hai scritto! Figlio –
Dolce mio – come dirti! – Io sono al timone della barca, e
non posso parlarti, ma in questa solitudine, così grande, così
profonda – come il mare – come il mare – io ti parlo
– Gabri – e solo il pensiero di te mi fa vivere.”
(3) Si legga la nota di F. Minnucci, p. 1046: “Più chiaramente
che altrove la Duse qui ammette di aver interpretato sulla scena sempre
se stessa: ‘così, vivendo’”.
(4) Vedi l’articolo programmatico, La Rinascenza della Tragedia,
pubblicato da d’Annunzio in Francia e in Italia il 2 agosto 1897.
(5) Falsità, ambizione, disprezzo delle masse (del pubblico e degli
attori), falso umanitarismo, antiebraismo, bellicismo, sono il condimento
della Storia: aspetti non marginali figuranti nei due personaggi, che
tuttavia rivelano pregi artistici ineguagliabili.
Onofrio Annese, già Dirigente scolastico in
alcuni licei di Roma e poeta satirico.
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