Nella cornice suggestiva di Palazzo Incontro a Roma, oggi sede di
Fandango Incontro, è allestita la mostra "Henri Cartier
Bresson. Immagini e Parole", fino al prossimo 6 maggio.
Cartier Bresson è uno di quei personaggi che potendo vantare
una carriera artistica durata quasi 70 anni, è divenuto col
tempo il punto di riferimento di generazioni intere di fotografi
che lo hanno inevitabilmente richiamato come metro di paragone,
per allinearsi o per contrastare la sua metodologia di ricerca fotografica.
Come può definirsi in poche righe la peculiarità di
un artista che ha scattato immagini dei soggetti più vari
in gran parte del mondo, in quasi un secolo di storia?
I commenti di intellettuali, amici, scrittori e critici che accompagnano
le quarantaquattro fotografie esposte in mostra sicuramente contribuiscono
a comprendere meglio la sua ricerca e a delineare i contatti che
ha sempre avuto con l’intero mondo intellettuale. Da Aulenti,
Balthus, Baricco, Gombrich, a Scianna, Sciascia, Miller ecc., già
da qualche anno ognuno di loro ha individuato la “sua”
foto e ne ha rilasciato pensieri, suggerimenti, stimoli: tra i più
apprezzabili a mio avviso quelli brevi e sintetici, tali da indicare
nuovi punti di vista senza incidere troppo sul nostro primo sguardo.
Cartier-Bresson (Chamteloup, Parigi, 1908- L'Isle-sur-la-Sorgue,
2004) inizia la sua attività come pittore, passando alla
fotografia alla fine degli anni ’20. Spostandosi subito in
Messico, realizza i suoi primi reportages insieme a Manuel Alvarez
Bravo, per poi approdare, negli anni ’30, a New York e di
nuovo a Parigi. Sarà nella guerra civile di Spagna che conoscerà
i celebri fotoreporter Robert Capa e David Seymour con i quali fonderà
nel 1947 l’Agenzia Magnum, la più nota agenzia di reportage
al mondo.
Questa grandioso progetto nasce per Cartier-Bresson come frutto
di una definitiva consacrazione a fotografo di reportage dopo l'importante
mostra tenutasi al MOMA di New |
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Eunuco della corte imperiale dell'ultima dinastia, Pechino, 1949. © Henri Cartier-Bresson/Magnum Photos/Contrasto
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York nel ’46. Ancor prima, è il
frutto del tormentato periodo bellico nel quale il fotografo viene
prima arruolato come fotografo di guerra, poi reso prigioniero dai
tedeschi per poi riuscire a fuggire dal carcere nel 1943.
Soprattutto in questo contesto la vocazione di fotografo da reportage
viene vissuta da Cartier-Bresson in maniera completamente diversa
rispetto al collega Capa: mentre quest’ultimo unisce alla
capacità tecnica lo sprezzo del pericolo e il desiderio di
essere testimone dei momenti più tragici anche a costo della
propria vita (Capa morirà in Vietnam nel ’54), Cartier-Bresson
vuole solamente “fissare una frazione di secondo di realtà”.
Il leitmotiv della sua ricerca è sempre stato delineato nel
cogliere il momento decisivo che contiene l’essenza di una
situazione, l’attimo più significativo nel flusso degli
avvenimenti quotidiani. Le serie fotografiche più illustri,
infatti, non colgono momenti bellici o tragedie umane, ma attimi
che divengono testimoni di un’esperienza più complessa.
In "Campo di prigionia di Dessau" (1945), ad esempio,
la soddisfazione della fine della guerra viene resa dal momento
in cui una deportata riconosce una collaborazionista del regime
hitleriano e la indica alla folla e al funzionario seduto al tavolo,
invertendo così i ruoli tra vittima e carnefice.
Jean Daniel lo definisce pervaso da una magia dell’onestà,
sebbene credo che quest’onestà sia sempre accompagnata
da una ricerca più sottile. La tentazione di considerare
molti suoi scatti frutto del fortuito caso o dell’attimo fugace
è forte, ma l’Autore è sempre concentrato a
porre sulla stessa linea di mira il cuore, la mente e l’occhio,
come dice egli stesso. Nella casualità dei movimenti, nei
flussi spontanei di ogni vissuto dell’uomo, cogliere l’attimo-essenza
di una situazione significa a volte restituire quell’enigmatico
rapporto che lega ogni individuo al contesto in cui vive, evidenziandone
la continuità o la sua totale estraneità.
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Ile de la Cité, Parigi, 1952. © Henri Cartier-Bresson/Magnum Photos/Contrasto
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Come in una “simbiosi dei contrari”,
viene scattata una foto a Siviglia nel 1933 dal vuoto su un muro
lasciato dalle macerie della guerra. Al suo interno vediamo gruppi
di bambini che corrono, giocano e addirittura ridono di scherno
verso un bimbo ormai privo di gambe, il tutto con un sentire totalmente
indifferente all’ambiente che li circonda, che diviene soltanto
la cornice che fa da inquadratura all’immagine. Sempre in
terra spagnola, a Valencia, Cartier-Bresson coglie l’andamento
di un bimbo cieco che si fa strada appoggiandosi ad un muro e seguendo
inconsapevolmente un tracciato nero dipinto al centro: un percorso
nel buio attraverso la linea dritta dell’oscurità.
Similmente, a Ivry-Sursene, due anziani in pantofole si riposano
seduti all’aperto. Sono appoggiati all’ultimo albero
secolare che richiama una natura incontaminata a cui sentono di
appartenere, mentre lo sfondo dietro, terra di cantieri e cani abbandonati,
non può evocare in loro nessun ricordo. A volte parlano gli
sguardi, a volte gli ambienti, altre volte entrambi i fattori, come
nella bellissima foto scattata ad Alberto Giacometti mentre attraversa
una strada di Parigi riparandosi dalla pioggia.
Tra il 1948 e il 1952 il fotografo realizza numerosi reportages
in vari luoghi del mondo: Cina, India, Marocco, America, visibili
nell’ultima sala della mostra in una lunga carrellata di immagini
in loop. Qui scorrono grandi distese di paesaggi, azioni collettive
e rituali di popoli e società, usanze quotidiane di piccoli
centri, gruppi di bambini, donne, folle che inneggiano, che esultano,
che lavorano, che faticano, che si disperano. Passando da singoli
sguardi ad abbracci corali di un mondo intero, Cartier Bresson è
dunque riuscito, anche in modo diverso, a trasmettere in ogni suo
scatto una vera e propria “esperienza visiva”.
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Francesca Pardini, laureata in Storia dell'Arte Contemporanea, é specializzata in Fotografia contemporanea
francespardini@hotmail.it
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