Claudio Abate si aggirava nel centro di Roma munito di macchina
fotografica quando, a soli 12 anni, si allontanava dallo studio
del padre pittore in via Margutta per esplorare la vita culturale
romana in fermento alla fine degli anni ‘50. Una volta messo
su il proprio studio e intrapresa una vera e propria attività
fotografica (dopo un’esperienza con il fondatore della Magnum
Eric Lessing) la sua ricerca, dettata da una grande curiosità
e passione per l’arte, nonché da una straordinaria
capacità tecnica, si intreccia spontaneamente alla vita e
all’amicizia che instaura con gli artisti emergenti della
scena romana.
Dallo scatto a Schifano nel ’59 alle performance di Kounellis,
Mattiacci, fino a tutta l’opera di Pascali, Abate va incontro
alla smaterializzazione dell’opera e alla sua continua mutabilità
con una documentazione pronta, immediata, capace di superare il
semplice valore documentario della fotografia per renderla l’unica
e autentica testimonianza dell’esistenza dell’opera.
E proprio al bar Notegen, luogo di ritrovo della vita notturna romana,
luogo di scambi e confronti, incontra anche lui: Carmelo Bene. La
sua forte personalità non può lasciare indifferente
Abate che comincia a dedicargli intere pellicole.
La mostra Benedette foto!Carmelo Bene visto da Claudio Abate presentata
a Roma al Palazzo delle Esposizionida Daniela Lancioni con Francesca
Rachele Oppedisano, vuole essere un omaggio al grande attore scomparso
dieci anni fa attraverso le foto di Abate che, ancora una volta,
svolgono il ruolo salvifico di testimonianza unica ed assoluta,
indagando un aspetto meno noto del suo lavoro. |
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Claudio Abate, Carmelo Bene e Franco Citti dietro le quinte di Salomè, Teatro delle Muse, Roma 1964 © Claudio Abate
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120 fotografie circa di dieci tra i primi spettacoli
di Carmelo Bene, scattate tra il 1963 e il 1973, mettono in relazione
il teatro sperimentale e la fotografia dell’arte; come si
raffrontano e che risultato abbiamo di fronte a noi?
Carmelo Bene punta a costruire uno “spettacolo sradicato dalla
realtà quotidiana” dove le figure dell’attore
dell’autore e del regista sono indistinte e diventano parte
di un nuovo ingranaggio che decostruisce ogni elemento precostituito
della macchina teatrale. La maggior parte delle foto in bianco e
nero sembrano distribuire il pathos teatrale sulle scale di grigi
ed esaltano ora la scenografia ora l’espressione di un attore
ora l’importanza del costume, secondo il carattere del dramma
che viene messo in scena. La semplicità ed essenzialità
della scenografia fatta di giornali diventa il segno distintivo
di un impegnato Salvatore Giuliano (1967), mentre la ricerca dell’espressività
dei volti emerge nei primi piani del Faust o Margherita (1966) o
in Arden of Feversham (1968).
L’illuminazione, dirà anche Carmelo Bene, è
come uno sguardo che spia, e Abate sa esattamente quali momenti
rubare alla scena. Le prove innanzitutto, momento fondamentale per
gli attori che diventano protagonisti inconsapevoli di immagini
di svago e gioco tra manichini, costumi arrangiati e luoghi improvvisati;
o, ancor più importante, la foto che permise a Bene di esclamare
“Benedette foto!” –da cui il titolo della mostra-
e di essere scagionato da un’accusa di oltraggio. La foto
in questione coglie esattamente il momento in cui l’attore
argentino Alessandro Greco nel Cristo ’63, porta all’eccesso
la sua interpretazione orinando di fronte all’ambasciatore
seduto in prima fila. La voluta e rischiosa ricerca di “attori
spregiudicati e pregiudicati”, senza questa foto, sarebbe
costata cara alla sperimentazione di Bene.
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Claudio Abate, Lydia Mancinelli e Franco Gulà in Arden of Feversham, Teatro Carmelo Bene, Roma, 1968 © Claudio Abate
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Claudio Abate, Carmelo Bene in Pinocchio, Teatro Centrale, Roma 1966
© Claudio Abate
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Tutte le immagini in bianco e nero sono state
stampate da negativi e ritoccate a mano, mentre quelle a colori
sono stampate da file digitali e sottoposte ad un accurato lavoro
di ripristino. Ecco allora spuntare una forte luce rossa sul Pinocchio
’66, ed ecco ancora vibrare luci, forme e ombre nelle foto
de Il Rosa e il Nero (1966): in una scenografia definita un’orgia
sensuale barocca sfilano personaggi coperti da maschere mosaicate
di bigiotteria, in un riflesso continuo di specchi e riflessi. Il
colore affiora dal buio e diviene una scelta necessaria in Nostra
Signora dei Turchi (1973), dove le relazioni tra gli attori e lo
spazio si configurano come moderne e vivaci sacre rappresentazioni.
Laddove lo spettacolo si fa più pittoresco, i colori sgargianti
restituiscono la densità iconica delle immagini, come in
Salomè ’72, un film di 70’ dove l’alternanza
tra i complessi allestimenti teatrali e l’espressività
dei volti giocano su continui cambi di messa a fuoco.
La quantità e la qualità dei lavori di Abate sono
il frutto di una accurata selezione effettuata su un vastissimo
archivio di fotografie; solo il fatto di averle proposte al vasto
pubblico ci fa esclamare, con sollievo, “Benedette foto!”,
liberandoci dall’ignoranza e restituendoci la certezza che
la memoria e la testimonianza di questa grande stagione teatrale,
non potranno mai fuggire dalle tracce della scrittura fotografica.
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Claudio Abate, Carmelo Bene, Lydia Mancinelli, Isabella Russo, Imelde Marani e Alfiero Vincenti in Nostra Signora dei Turchi, Teatro delle Arti, Roma 1973 © Claudio Abate
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Francesca Pardini, laureata in Storia dell'Arte Contemporanea, é specializzata in Fotografia contemporanea
frapardini@hotmail.it
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