Ufficio Mario Botta (foto Enrico Cano)
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L’architetto svizzero Mario Botta è una delle figure
più importanti sul panorama internazionale dell'architettura
contemporanea. Docente e Rettore della Facoltà di Architettura
di Mendrisio e padre dei progetti più rilevanti e iconici
del nostro tempo, di cui il Museo MART di Rovereto, la Cattedrale
d'Evry e la cantina Petra di Suvereto sono solo alcuni esempi. Il
Maestro è stato ospite del Padiglione del Corriere della
Sera a Expo Milano 2015 per una lectio magristralis sulla necessità
di ritrovare i valori ancestrali della progettazione architettonica
per risanare il rapporto primordiale tra l’uomo e la città.
Maestro, ci può spiegare cosa lega l'architettura e la società contemporanea?
L'architettura è sempre il riflesso formale della storia,
l'architettura non può tradire la storia del proprio tempo quindi
neanche quella della contemporaneità. Naturalmente è anche l'espressione
delle contraddizioni della società contemporanea, per questo, da
un lato risponde a un bisogno primordiale dell'uomo di avere un
tetto, un'abitazione, la casa come utero materno, come elemento
ultimo di protezione e dall'altro di affrontare il tema delle grandi
istituzioni collettive, il teatro, la chiesa, la biblioteca, il
museo, ovvero tutte le costanti che si ripetono all'interno della
società e che anche nel contemporaneo hanno bisogno di avere una
loro visibilità e una loro interpretazione, perché sono degli elementi
che hanno segnato le differenti situazioni anche del linguaggio
artistico. |
Ufficio Mario Botta (foto Enrico Cano)
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Facoltà di biologia (foto Enrico Cano)
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Quali sono, secondo lei, le debolezze dell'architettura contemporanea
e quali sono i principi secondo Mario Botta per riscostruire il
valore dell'architettura?
Una delle criticità è senz’altro il fatto che
oggi anche l’architetto è cittadino del mondo. Si confronta
con tutto il mondo e subisce le influenze delle notizie, dei fatti
globali che e ne viene condizionato quotidianamente. L’architettura
risente di questa attitudine perché, dai primordi, è
un’attività legata a luogo che è sempre un unicum,
uno spazio fisico, un sito dove l’architettura entra a far
parte della storia propria di quel luogo e non del mondo intero.
Da qui la contraddizione dell’architettura contemporanea che
assorbe i modelli globali ma parla e si esprime in una realtà
sociale e culturale legata a un luogo in cui viene costruita.
La grande progettazione possiamo dire che sacrifica la qualità
espressiva a favore di un spazio concentrato sulla soluzione dei
fabbisogni umani. La grande narrazione del passato si perde nei
centri commerciali. Quali sono le urgenze dell’Architettura
contemporanea?
Bisogna correggere la spinta che vede nella sofisticazione e nella
rappresentazione di questi grandi “ensemble” dei veri
comportamenti di vita, anziché dei comportamenti sollecitati
dal mercato. L’architettura deve permettere un rapporto
di vita diretto e quindi rispondere ai bisogni reali e non a quelli
immaginari offerti dal mercato.
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Area ex Appiani (foto Enrico Cano)
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Area Campari (foto Enrico
Cano)
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Un tempo l’architettura era un’architettura-scultura:
viveva di se stessa, mentre oggi genera un dialogo con lo spazio
pubblico. Qual è il rapporto che insiste tra l’architettura
del nostro secolo e la città contemporanea?
Stiamo parlando di un rapporto conflittuale. L’architettura
del nostro secolo è nata sulle orme della città storica,
della città consolidata, quindi della diverse forme della
progettazione urbana, pensiamo alla città giardino, alla
città concentrica, e così via. La contemporaneità
ha ereditato l’idea della città come forma finita,
una forma che oggi è profondamente in crisi perché
mancano gli elementi essenziali di questa costante che ha avuto
nella storia e l’idea del limite e soprattutto perché
manca l’idea del centro. Non essendoci più un limite
e non c’è più dialogo tra la città e
la campagna, tra il vuoto e il pieno, tra lo spazio costruito e
la natura.
Il limite è lo spazio creativo in cui si esprime l’architetto?
In un certo senso si, ma non bisogna dimenticare che l’architetto
è solo uno strumento, non bisogna sopravvalutare quello
che può fare perché solo è il frutto di una
contingenza che è quella della storia e della cultura.
Io sono figlio del post Bauhaus, non posso agire come un post
neogotico, perché il mio mestiere è l’espressione
formale della storia. Da questo punto di vista l’architetto
riconosce i propri limiti nella necessità di rappresentare
la storia del proprio tempo.
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Museo Bechtler (foto Enrico Cano)
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Biblioteca Tsinghua (foto Fu
Xing)
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Icone. La Casa sulla cascata, Ville Savoye, il Padiglione di Barcellona
ma anche la cupola di San Pietro o la griglia di Manhattan. Come
si arriva a progettare un’icona e cosa rende un’opera
tale alla percezione del pubblico?
Un’icona è la coincidenza di un’immagine con
una serie di comportamenti, di speranze e di aspirazioni. Se un’opera
architettonica arriva a rappresentare non solo un’immagine
ma una speranza e un benessere, diventa un’icona: un’immagine
di bellezza condivisa e condivisibile dal mondo intero, non è
solo la forma.
Siamo a Expo Milano 2015, parliamo di cibo o meglio di vino.
Nel 2001 lei ha progettato la Cantina Petra a Suvereto. Qual è
il fil rouge che lega le forme semplici e primordiali, l’architettura,
il paesaggio, la tradizione vinicola italiana e l’imprenditoria?
Il proprietario mi ha chiesto una cantina che restituisse un’immagine
modernissima e al contempo antichissima, per questo ho cercato
di lavorare sulla memoria, ovvero sull’elemento che sorregge
i valori inconsci che noi abbiamo dentro, rispettandone il rapporto
con la contemporaneità. La Cantina Petra ha una forma semplice,
funzionale che si confronta con i paesaggi dei vigneti, una forma
capace di esaltare il rapporto di dialogo fra il manufatto dell’uomo
e la natura del territorio.
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Hotel Twelve (foto Fu Xing)
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Ilaria D'Ambrosi, architetto e Urban Planner
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