Negli ultimi decenni i musei e le
collezioni di arte contemporanea hanno acquisito moltissime opere ed installazioni che utilizzano mezzi audiovisivi come il cinema ed il video, le diapositive, il suono e le tecnologie informatiche. Queste nuove forme d'arte vengono definite con il termine inglese Time-Based Media (opere basate sul tempo), ossia opere che dipendono da una tecnologia ed in cui il concetto di dimensione è dato dalla durata. I materiali cinematografici, le video-installazioni, i supporti digitali e più in generale tutte le forme di Time-Based Media rappresentano probabilmente il settore di materiali meno conosciuti nel campo della conservazione e del restauro, sia per quanto riguarda le tecniche sia rispetto ai criteri da seguire.
È innanzitutto fondamentale
specificare che il cinema ed il video, spesso usati come termini intercambiabili, sono in realtà mezzi totalmente differenti: entrambe captano immagini in movimento nel tempo, ma il cinema è un mezzo meccanico , mentre il video è elettronico , quindi di conseguenza anche i parametri conservativi sono differenti. Verso la fine degli anni '20 gli artisti iniziano a realizzare pellicole sperimentali intervenendo fisicamente su di esse con graffi o pennellate; bisognerà aspettare tuttavia gli anni '60-'70 perché gli artisti inizino ad utilizzare il cinema ed il video come supporti per l'opera d'arte. La videoarte, termine coniato da uno dei fondatori di questa forma di espressione artistica Nam June Paik, nasce sulla scia del movimento Fluxus verso la metà degli anni '60 per registrare e riprendere il quotidiano e trasmetterlo in diretta in una sorta di happening/performance; famose sono le installazioni di Paik, composte da munerosi televisori disposti sul pavimento assieme ad altri oggetti, oppure mimetizzati in una fitta vegetazione tropicale. La videoarte si sviluppa a questo punto su scala globale e nei primi anni '70 il video sostituisce le pellicole cinematografiche grazie anche al rapido progresso delle nuove tecnologie, che vede nel '69 l'introduzione del videoregistratore portatile Sony. Dalla fine degli anni '70 a tutti gli '80 sono numerosissimi i festival che uniscono la videoarte a teatro, arti visive, film, musica, danza contemporanea, tanto che nel 1979 il Centre Pompidou di Parigi (aperto solo due anni prima) fonda il Dipartimento Video, fondamentale per mettere le basi riguardanti la conservazione, lo studio, la collezione e la catalogazione dei lavori realizzati in video. Negli anni '90 una nuova generazione di artisti torna all'uso della pellicola in 16mm per realizzare le installazioni, di conseguenza possiamo comprendere quanto siano variegate le tipologie e le epoche dei Time-Based Media conservati nei musei.
Conservazione del
materiale cinematografico Il restauro della cinematografia è un campo molto recente perché quest'ultima è stata dichiarata Bene Culturale dell'Umanità dall'UNESCO solo nel 1980; la conservazione delle opere cinematografiche comprende la tutela sia del materiale filmico che della tecnologia ad esso associata, come per esempio i proiettori, che fortunatamente non sono cambiati nel corso degli anni e pertanto il loro utilizzo nei musei è possibile con l'aiuto di tecnici specializzati. Le pellicole cinematografiche sono invece soggette ad un inevitabile deterioramento chimico-fisico riguardante il supporto e l'
emulsione, che può essere soltanto rallentato immagazzinandole a bassa temperatura ed umidità relativa. I supporti utilizzati nel corso del tempo sono stati vari: il nitrato di cellulosa, altamente infiammabile, sostituito nel '48 dall'acetato di cellulosa e negli anni '70 dal più stabile poliestere. L'acetato di cellulosa è soggetto ad un processo di degrado noto come “sindrome dell'aceto”: l'umidità innesca la rottura delle catene molecolari
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Francesca Checci: Spaceart , pellicola Super 8 su supporto digitale. I° premio sezione video "Sinestesie", Premio Arti Visive, 2006. L'Aquila
Piotr Hanzelewicz: Immane (video), "Premio Sinestesie", 2006. L'Aqiula
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