La scienza della diagnostica per i beni culturali
ha avuto, in anni recenti, significativi sviluppi che hanno permesso
di modificare la prassi del trasporto dell’opera d’arte
in laboratorio per effettuare le analisi necessarie alla sua salvaguardia.
Tuttavia, prima di addentrarci nell’argomento, è necessario
precisare alcuni punti fondamentali.
A che cosa servono le indagini diagnostiche su un manufatto artistico?
Rappresentano l’insieme di fasi preliminari all’intervento
di restauro vero e proprio, forniscono una sorta di “quadro
clinico” dell’opera d’arte dal punto di vista
delle tecniche esecutive, dei materiali originali e di eventuali
restauri precedenti, dello stato di conservazione e dei processi
di degrado. Sono inoltre una conferma alle ipotesi ed alle osservazioni
del restauratore, il quale deve avere gli strumenti necessari per
valutare quali indagini scientifiche richiedere caso per caso in
base alla conoscenza dei dati che queste ultime forniscono. Ovviamente
l’interpretazione dei dati venuti alla luce dalle analisi
effettuate dovrà essere affiancata da un approccio interdisciplinare,
ossia dallo scienziato, dal restauratore e dallo storico dell'arte,
figure che dovrebbero interagire costantemente durante l’intero
intervento, dalle fasi preliminari al progetto di restauro, dall’intervento
pratico alla manutenzione e conservazione programmata del bene.
Quando si parla di indagini diagnostiche conoscitive, è bene
distinguere due tipologie di analisi: le indagini invasive, che
prevedono il prelievo di materiale originale dall’opera, distinguibili
a loro volta in indagini invasive non distruttive (il campione prelevato
non viene distrutto e l’analisi può essere ripetuta
un numero infinito di volte; rientra tra queste la sezione stratigrafica)
ed indagini invasive distruttive (il campione prelevato viene distrutto
durante l’analisi); le indagini non invasive, per le quali
non viene effettuato alcun prelievo e che non arrecano quindi alcun
danno alle opere d’arte esaminate. Tra di esse le più
comuni sono le indagini fotografiche, la radiografia, la fluorescenza
ultravioletta e la riflettografia infrarossa.
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Dopo aver fatto
questo rapido e sintetico excursus in merito, possiamo affrontare
nello specifico l’argomento. Le indagini invasive, sebbene
con lo sviluppo delle più moderne tecnologie prevedano ormai
il prelievo di campioni dalle dimensioni molto ridotte, hanno tuttavia
il limite di arrecare un danno (seppur microscopico) al manufatto,
e di non essere spesso rappresentativi nei confronti dell’intera
opera, costituita da una grande complessità di materiali.
La ricerca scientifica ha per tali motivi posto recentemente particolare
attenzione alle tecniche non invasive, tentando di sfruttarne al
massimo le possibilità e trasformandole da indagini svolte
in laboratorio ad indagini in situ. Non è più l’opera
d’arte a doversi spostare in laboratorio per essere analizzata,
ma è il laboratorio che si sposta nel luogo dov’è
conservata l’opera stessa, evitandole spostamenti che, come
noto, sono degli shock che possono mettere a repentaglio la sua
conservazione.
Sulla scia di queste considerazioni è nato negli ultimi anni
il MoLab (Mobile Laboratory), un laboratorio mobile nato a Perugia
dalla collaborazione tra la Facoltà di chimica ed in CNR
composto da un’equipe di specialisti che viaggiano per i musei
di tutta Europa per svolgere analisi non invasive sulle opere d’arte
in situ, grazie a fondi dell’Unione Europea.
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Particolare di una fase della pulitura di un dipinto
antico
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Al tema molto sentito dagli esperti del settore
della conservazione dei beni culturali è stato dedicato un
convegno presso l’Accademia dei Lincei a Roma il 17 e 18 novembre
scorso, intitolato appunto "Diagnostics in Cultural Heritage"
(La diagnostica nel patrimonio culturale), mettendo a fuoco le possibilità
delle indagini non invasive sulle opere d’arte antiche, moderne
e contemporanee. Per quest’ultimo vastissimo gruppo di opere
d’arte la questione lascia tuttora aperti molti interrogativi:
se analizzando un affresco cinquecentesco ci aspettiamo di riscontrare
la presenza di una successione standard di strati (arriccio, intonaco,
intonachino, pellicola pittorica) e di pigmenti più o meno
in uso all’epoca e descritti inoltre dalla manualistica, su
di un’opera contemporanea non possiamo aspettarci lo stesso.
Dalla metà dell’Ottocento in poi, con la rivoluzione
industriale, il mondo dell’arte cambia radicalmente: il pittore
non si produce più i colori in bottega, ma li compra direttamente
in tubetto dal fornitore, così come le tele, anch’esse
preparate industrialmente. Con l’Impressionismo la tecnica
diventa antiaccademica, non segue più regole precise e ciò
diventerà caratterizzante per tutta l’arte a seguire.
L’artista da questo momento in poi non sarà più
interessato alla durabilità delle opere che produce, ma alla
progettualità e al concetto che vuole trasmettere. Se gli
impressionisti abbandonano la prassi accademica della veniciatura
finale, con l’avvento delle Avanguardie ed ancor più
dal secondo dopoguerra il fare artistico acquisisce un’elevata
specificità: ogni artista ha una sua tecnica individuale
(il dripping di Pollock, i tagli di Fontana, i sacchi o le plastiche
bruciate Burri, ecc.) e fa largo uso dei materiali più atipici,
materiali di riciclo, come materiali commestibili, materiali vegetali
o provenienti dal mondo industriale. Ecco allora che le indagini
invasive presentano dei limiti: come identificare con certezza la
specifica composizione e formulazione di una pittura sintetica se
non attraverso un prelievo? La gas cromatografia di massa, analisi
invasiva distruttiva, è infatti ancora oggi la tecnica più
utilizzata dai musei di tutto il mondo per identificare i materiali
plastici ed i film pittorici sintetici e per poterne studiare i
processi di degrado, progettare gli interventi di restauro, stabilire
le condizioni conservative, spesso molto diverse rispetto all’arte
antica. Attendiamo quindi con ansia ulteriori innovazioni nell’ambito
della diagnostica dei beni culturali affinché il superamento
dei limiti delle analisi non invasive permetta in un futuro, speriamo
molto vicino, una completa caduta in disuso delle tecniche microdistruttive.
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Particolare di una fase della pulitura di un dipinto
antico
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Particolare di una fase della pulitura di un dipinto
antico
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Francesca Secchi è restauratrice, diplomata all'ICR di Roma, specializzata in Restauro Pitture, moderne e contemporanee
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