Il 2013 è un anno importante per il Salone dell’Arte
del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali
di Ferrara, svoltosi dal 20 al 23 marzo scorso a Ferrara Fiere,
che festeggia la sua XX edizione con un programma espositivo e convegnistico
dai contenuti più che mai interessanti e attuali. L’evento
si è occupato non solo di grandi restauri pittorici e scultorei,
della conservazione del patrimonio culturale e ambientale, di sicurezza
e di sostenibilità, di ricerca tecnologica e di nuovi materiali,
ma anche delle problematiche derivanti dai danni dei terremoti.
I recenti eventi sismici che hanno colpito l’Emilia hanno
profondamente inciso sul patrimonio storico-monumentale e il Salone
non poteva esimersi dal focalizzare la XX edizione proprio sul ruolo
centrale che assume il restauro nella ricostruzione post-sismica.
Un importante contributo alla discussione e alla ricerca proviene
dal Dipartimento di Architettura dell’Università degli
Studi di Ferrara, Piattaforma Costruzioni, Rete Alta Tecnologia
della Regione Emilia Romagna e dalla Direzione Regionale per i Beni
Culturali e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna, che hanno indagato
in un grande convegno, intitolato "Dov’era ma non com’era",
il ruolo centrale del restauro nella ricostruzione post-sismica,
articolato in due sessioni: la prima dedicata alle emergenze architettoniche,
in programma durante la giornata inaugurale del 20 marzo, la seconda
dedicata all’edilizia storica aggregata, il giorno 21 marzo.
"Dov’era, ma non com’era" è stato inoltre
il titolo di uno spazio espositivo di approfondimento tematico realizzato
grazie al coordinamento scientifico del DIAPReM/TekneHub-Tecnopolo
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Interno della chiesa di Bagrati
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dell' Università di Ferrara, Piattaforma
Costruzioni, Rete Alta Tecnologia Emilia-Romagna, in cui a terra
è stata riportata la rappresentazione iconografica dei territori
e dei comuni colpiti, con le cifre, i dati e le stime, mentre in
grafiche verticali sono stati riprodotti i “campanili”,
grande richiamo simbolico al sisma dell’Emilia. Per l’edificio
divenuto simbolo dei danni provocati dal terremoto, ovvero la Torre
dei Modenesi (o dell’Orologio) di Finale Emilia, è
già stato approvato un progetto di recupero e di ripristino
di cui si è occupato un importante convegno organizzato a
cura del Comune di Finale Emilia, nel quale sono intervenuti anche
Andrea Emiliani e Salvatore Settis.
Facendo perno sui temi della ricostruzione, è stato introdotto
al Salone un secondo importante focus sulla conservazione del patrimonio
architettonico del Novecento.
Il focus apre a tutte le problematiche di conservazione e recupero
del più recente patrimonio esistente, ai temi della rigenerazione
e recupero diffuso, sostenibilità, sicurezza strutturale
e valorizzazione culturale, allungando lo sguardo anche a realtà
straniere come l’India, l’America Latina e di altri
Paesi emergenti, in cui sono da sempre presenti molte contaminazioni
italiane ed europee.
In particolare si è parlato delle grandi architetture di
Oscar Niemeyer in Brasile, di Le Corbusier in India e delle architetture
italiane in Argentina.
Noi di ARS et FUROR abbiamo scelto, tra i diversi interventi,
tutti di prim’ordine, di riportare il testo di approfondimento
di Riccardo Dalla Negra, Ordinario di Restauro Architettonico
e Direttore del Labo.R.A-Laboratorio di Restauro Architettonico,
Dipartimento di Architettura-Università degli Studi di
Ferrara,
che ha avuto come tema specifico “Il restauro quale nodo centrale
della ricostruzione post sismica”. Lo riportiamo qui di seguito: |
“Dov’era,
ma non com’era” è un motto, o slogan che dir
si voglia, il cui utilizzo si è reso necessario in opposizione
al vecchio adagio veneziano “Com’era e dov’era”,
che si credeva definitivamente archiviato e che, invece, è
riemerso con forza anche all’indomani del terremoto emiliano.
Al pari di tutti gli slogan, esso necessita di molte precisazioni,
come meglio vedremo appresso, giacché si potrebbe facilmente
assimilare ad una arbitraria e repentina sostituzione del patrimonio
edilizio danneggiato, ipotesi questa che pure serpeggia, in maniera
più o meno velata, in determinati ambienti.
È un fatto assodato come, a séguito di eventi traumatici,
si avverta immediato il bisogno di poter tornare, nel più
breve tempo possibile, alla situazione preesistente, quale che essa
fosse. Se tale atteggiamento può trovare una sua giustificazione,
sul piano psicologico, per la metabolizzazione di un lutto conseguente
alla tragedia, non trova invece giustificazione sul piano culturale
e operativo per almeno due validissime ragioni: la prima attiene
al lungo e difficile processo di maturazione dei principi conservativi
nei quali la cultura contemporanea largamente si riconosce, i quali
mettono al primo posto il rispetto assoluto dell’autenticità
di un’opera e la conseguente sua irriproducibilità;
la seconda, di natura più tecnica, risiede nell’impossibilità
fisica di riprodurre la “materia” di un’opera
distrutta o ampiamente compromessa. Si può replicare la “forma”
dell’opera distrutta, consapevoli del fatto che stiamo producendo
un falso sia artistico che storico, ma sappiamo bene che, nella
attuale riflessione teorica, la “forma” non può
essere disgiunta dalla “materia”, entità queste
che, per citare Brandi, vivono in maniera “coestensiva”.
Vieppiù in architettura allorché alla “materia”
sono delegate speciali “funzioni” di resistenza meccanica,
ancorché tali funzioni attengano a qualsiasi prodotto dell’operosità
umana, non fosse altro che per opporsi alla forza di gravità.
Immancabilmente, tuttavia, l’invocazione alla ricostruzione
à l'identique è deflagrata nel dibattito post-sisma
non solo sui titoli dei giornali, tanto approssimativi quanto “urlati”,
ma anche in assise diverse con tanto di côté intellettuale
pronto ad immolarsi alla causa della ‘bellezza’ non
altrimenti recuperabile (sic!). Sul fronte opposto, con altrettanta
perentorietà, sono emersi gli atteggiamenti “contemporaneisti”
che, pur partendo da presupposti condivisibili circa l’irriproducibilità
delle opere distrutte, giungono a conclusioni inaccettabili sia
per l’edilizia storica emergente, quella che un tempo avremmo
definito “monumentale”, sia nei confronti dei tessuti
edilizi storici, proponendo un’ampia sostituzione delle pagine
distrutte o fortemente compromesse con altre di architettura contemporanea,
comprendendo in esse anche la progettazione di nuovi “vuoti
urbani”.
È appena il caso di richiamare l’approssimazione culturale
di certa avanguardia oltranzista nell’avanzare, ancora oggi,
accuse di “passatismo” e di “immobilismo”
nei confronti del mondo del restauro. Ciò appare estremamente
fuorviante, laddove si consideri che, nella riflessione contemporanea
più aggiornata, l’atto del restauro non può
essere considerato altro che un atto di architettura, più
precisamente un particolare modo di fare architettura con finalità
conservative.
La querelle non è certo nuova, in quanto è
sempre riemersa, non solo all’indomani di tragedie simili,
ma ogniqualvolta si è posto il tema del rapporto tra nuovo
e antico. Occorre, invece, prendere atto come il tema della ricostruzione
del patrimonio edilizio storico, laddove esso si presenti danneggiato
più o meno seriamente, sia squisitamente di restauro architettonico,
sia che si tratti di reintegrare parti perdute di un monumento significativo
per la comunità, sia che si tratti di ricostruire una parte
dei tessuti urbani.
Partiamo, innanzi tutto, da una considerazione preliminare, a mio
giudizio fondamentale: dopo un evento traumatico, nessun edificio
può considerarsi veramente “perduto” perché
rimarranno di esso, anche nei casi gravissimi, pur sempre delle
tracce. Ne consegue che la cancellazione totale di un edificio,
o di un tessuto urbano, è sempre “intenzionale”
e di ciò ne abbiamo testimonianza proprio dalla Storia.
Se si accetta tale premessa, la prospettiva muta radicalmente in
quanto l’atteggiamento giusto non è quello di chiedersi
con quali forme architettoniche si risarciranno le parti perdute,
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Chiesa di Bagrati
Effetti del terremoto in Emilia
Torre Modenese con il suo orologio
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siano esse “assonanti” (facendo ricorso tanto alle repliche
falsificanti, quanto al cosiddetto “moderno ambientato”),
oppure “dissonanti” (così come è dato
largamente vedere nell’attuale panorama architettonico); occorre,
al contrario, chiedersi quanto, e in che modo, il testo mutilo potrà
risultare “esigibile”. Ovviamente, tale “esigibilità”
(che i fautori del com’era e dov’era giudicano sempre
possibile) deve essere oggetto di un’attenta valutazione critica
e può mutare in base al valore testimoniale della preesistenza:
in definitiva, da un lato dovremo interrogarci sulla “esigibilità”
delle parti residue di un edificio specialistico portatore anche di
valori artistici, dall’altro su quella relativa alla ricomposizione
dei tessuti edilizi compromessi da un sisma. In entrambi i casi si
tratta di approcciare alle conseguenti problematiche progettuali ed
operative con l’ottica del restauro, quindi con finalità
esclusivamente conservative. Tutto ciò comporta, innanzi tutto,
un rigoroso approccio conoscitivo di natura storico-critica che, paradossalmente,
si fa più arduo proprio nei confronti dell’edilizia storica
di base, giacché sarà solo la conoscenza dei processi
evolutivi della città ad essere in grado di svelare quei caratteri
(distributivi, strutturali e linguistici) che, altrimenti, rimarrebbero
sconosciuti.
Non c’è chi non veda la distanza
considerevole di un tale approccio rispetto a quello puramente “percettivo”
che domina l’attuale cultura architettonica.
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Castello delle Rocche di Finale Emilia
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Ma dobbiamo pur sempre rispondere all’incessante domanda che
viene sempre posta in questi frangenti: può essere esclusa
completamente l’architettura contemporanea da tali processi
ricostruttivi? La risposta è che essa può giocare,
con piena legittimità, un ruolo insostituibile nei processi
ricostruttivi e reintegrativi, laddove venga messa al servizio della
preesistenza e non già l’inverso, come è largamente
dato osservare. Ciò si lega, appunto, al tema alla valutazione
della “esigibilità” del testo mutilo sul quale
si interviene; più precisamente, si lega ai criteri che adotteremo
per la reintegrazione delle lacune, sia architettoniche che urbane,
prodotte dal sisma. Laddove queste possono essere risolte facendo
ricorso al ricco patrimonio ideale e metodologico proprio della
disciplina del Restauro, il problema non deve essere minimamente
posto; ma laddove questo non fosse possibile, il linguaggio contemporaneo
può assolvere il compito reintegrativo o allusivo degli spazi
o delle masse murarie perdute.
Non si tratta, in questi casi, di andare “oltre il restauro”,
ma di rimanervi all’interno, nel pieno rispetto dei principi
conservativi nei quali ci riconosciamo."(Riccardo Dalla Negra)
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