Nel condurre la sua analisi sulla crisi del mondo moderno (in Salvezza
e caduta dell’arte moderna, 1964) Giulio Carlo Argan si schierava
apertamente a favore dell’arte “non rappresentativa”,
rintracciandone, al di là dei differenti processi operativi,
dei comuni denominatori come la più stretta relazione istauratasi
tra i generi artistici, la concordanza tra atto critico e atto creativo
e il consolidarsi di una coscienza sociale dell’arte. Poco
più avanti, tuttavia, com’è noto, egli concludeva
la sua “apologia del contemporaneo” abbracciando l’heideggeriano
“essere per la morte” come unica soluzione concreta
- un destino, come specificherà più tardi - per l’artista
che intendesse opporsi all’alienante inautenticità
della produzione industriale; con quest’ultimo incipit Argan
finiva così per destituire definitivamente l’arte non
solo dalla sua funzione sociale, ma anche, in fondo, dalla sua funzione
fondativa dell’individualità.
Nell’opera di Salvatore Giunta, nelle sue sculture come nelle
sue carte, è invece il respiro di una possibilità
“salvifica” a pervadere la materia, che egli lavora
con la purezza e la coerenza del filosofo, assumendo la riprogettazione
dello spazio come principio di ricostruzione di un ordine interiore,
recuperato attraverso un costante, quotidiano rapporto con l’invenzione
formale; uno spirito, il suo, che si conserva anche nel dialogo
con gli altri linguaggi dell’arte, compreso quello poetico,
cui sovente s’ispira il suo lavoro, come nel caso di questa
esposizione. Il riferimento alla poesia, come l’uso stesso
della parola o dell’aforisma, non sono difatti un fatto nuovo
nell’esperienza di Giunta, ma si affaccia nel suo percorso
anche attraverso una serie di collaborazioni con poeti contemporanei,
quali Clara Janes, Mario Lunetta, Francesco Muzzioli, Carla Vasio.
La serie di opere preparata per questa esposizione, dal titolo “Interferenze
di segni e parole”, si presenta come una trasposizione in
chiave visiva di sette poesie di Roberto Piperno, di cui Giunta
racconta i passaggi fondamentali, ne coglie le immagini ricostruendo
a partire dal verso una propria semantica della rappresentazione,
senza tuttavia rinunciare ai nuclei fondamentali che caratterizzano
la sua ricerca estetica. Il netto rifiuto della regolarità
delle pure forme della geometria euclidea, l’innata propensione
al dinamismo, la tendenza a rilevare la sostanziale incongruenza
tra realtà fisica e realtà percettiva, sono in effetti
tutti elementi che ritornano anche nella sua produzione su carta,
in cui i fondamenti del Suprematismo maleviciano, l’idealistica
tensione all’unità del Bauhuas e gli esiti dell’arte
italiana degli anni Cinquanta e Sessanta vengono a coniugarsi in
un linguaggio di grande rigore e chiarezza formale. È il
caso ad esempio di Luoghi in cui l’eco dello Spazialismo si
arricchisce di risonanze più intimamente esistenziali attraverso
l’uso di elementi isolati, pesi ondeggianti su ideali orizzonti
di quiete che risuonano come “in sentieri” nel silenzio,
“senza ascolto né risposta”. La prevalenza dell’orizzontale
resta costante anche nella parte superiore della composizione acquisendo
qui le fattezze di frammenti lineari, lenti passaggi di ispirazione
mondriana sospesi entro un’atmosfera atemporale.
Dotato di tutt’altra libertà è invece il segno
incisivo di Color turchino, lembo sfuggente di cielo opposto al
nero piano frastagliato che sembra ritrarre il profilo di un paesaggio
con la stessa sintesi ed essenzialità di un haiku orientale.
Nel guizzo intenso dell’azzurro riaffiora la memoria del dinamismo
delle sue strutture plastiche, tese sino al limite dell’equilibrio,
come ora il segno alla leggerezza dell’immaginario.
Più ispirate alla lezione suprematista sono invece altre
due opere della serie, Nel deserto e Fili. Nella prima Giunta affronta
il tema dedicando al bianco la sua composizione, colore non colore,
le cui molteplici possibilità d’applicazione son rese
dalle differenti proprietà delle carte sovrapposte, dalle
loro qualità tattili e visive, dalle variazioni sensibili
alle delicate tonalità del chiaroscuro, che lasciano immaginare
infiniti possibili percorsi nella “luce flebile dell’alba”
in cui l’anima s’inoltra nel suo cammino d’oltre.
Su questo tessuto di percorsi e sentieri, quasi in controrilievo,
si dispongono altri piani, protagonisti di un’operazione che
mette in crisi la forma e la reinventa, deviandone il senso originario
verso altre inattese letture.
Tratta dall’omonimo componimento di Piperno, Fili è
infine l’opera in cui più si ravvisa una continuità
con la sua ricerca plastica, a dimostrazione della straordinaria
capacità di Giunta di dar luogo a ricorrenti interferenze
tra i generi, ora convogliando, entro un discorso estetico improntato
sulla bidimensione, i valori che caratterizzano il suo linguaggio
plastico, ora dando consistenza volumetrica agli elementi propri
del disegno. Il riferimento alla geometria suprematista, si configura
qui quale terreno iniziale per un’ulteriore riflessione sulla
forma, fatta di sovrapposizioni, slittamenti, metamorfiche proiezioni.
Il decentramento degli assi diagonali, che costituisce uno dei perni
fondamentali del lavoro di Giunta, si configura difatti come il
frutto di una rotazione in progressione in cerca di spaesanti equilibri,
le cui direttrici si estendono come raggi anche al di là
fuori del perimetro finito della forma, nel terreno dell’inaspettato,
in cui anche l’assenza diviene presenza, ombra di luce legata
alla materia in un indissolubile binomio poetico. Filo che sfugge
anch’esso alle gabbie anguste della quotidianità, la
marcatura della linea retta taglia la forma e la completa, proiettandosi
in una possibilità di esistenza altra propria del poeta come
dell’artista visivo, aperta dall’imprevisto slancio
del momento creativo.
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Fili, collage
Nel deserto, collage
Prima luce, collage
Luoghi, collage
Lava, collage
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